Pubblichiamo di seguito alcuni estratti del contributo del Direttore del Museo Ebraico di Roma Olga Melasecchi tratti dal catalogo della mostra “Ludwig Pollak. Archeologo e mercante d’arte (Praga 1868 – Auschwitz 1943).”, allestita con il museo Barracco il 5 dicembre 2018.
La parabola della vita di Ludwig Pollak, documentata dalle sue giornaliere annotazioni dal 1893 al 1934 nei preziosi Diari parzialmente pubblicati da Margaret Merkel Guldan nel 1990, è emblematica della storia e del destino degli intellettuali ebrei vissuti in Europa tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Benché la Guldan, più volte, nel riportare interessanti stralci dalle sue annotazioni, abbia interpretato certe sue affermazioni come indice di una forte volontà di assimilazione, alla luce di una più approfondita conoscenza dell’epoca dell’Emancipazione del mondo ebraico è invece chiaro che anche lui come gli altri ebrei europei usciti definitivamente dai ghetti, sentisse fortemente e in egual misura la sua appartenenza piena alla società circostante, e nel contempo la consapevolezza e la rivendicazione della sua identità ebraica. Identità formatasi nel mondo ebraico ashkenazita di Praga, dove era nato il 14 settembre 1868, e dove tornava ogni volta per le festività religiose. Il padre, Abraham (1832 – 1913), figlio unico di un commerciante ambulante di biancheria, si era trasferito in gioventù a Praga dalla vicina cittadina di Humpolec, dove la presenza di una comunità ebraica era documentata fin dal 1385. Ludwig non aveva conosciuto i nonni paterni, ma ricordava, con un certo e comprensibile orgoglio, che un suo antenato paterno era un famoso artista, Leopold Pollak, da lui stesso confuso però con il noto architetto della Villa Reale di Monza, nato a Vienna nel 1751 e morto a Milano nel 1807. Probabilmente in famiglia si aveva la memoria solo del nome e sarà stata fatta confusione tra il Leopold architetto, il cui cognome era in realtà Pollak, e il Leopold pittore, nato a Lodenitz, in Boemia, l’8 novembre del 1806 e morto a Roma il 16 ottobre1880. Tuttavia di fondamentale importanza per la sua educazione, culturale e religiosa, fu la famiglia materna discendente da ebrei sefarditi presenti a Praga da centinaia di anni. La famiglia della madre, Karoline Schlosser (1836 – 1905), rappresentava, come sottolinea l’archeologo nei suoi Diari, una tipica famiglia ebraica patriarcale praghese. Il nonno, David Loew – Schlosser (Praga 1813 – 1899), era cresciuto in un vicolo buio e malsano del ghetto di Praga, non lontano dalla casa dove era vissuto il famoso rabbino Judah Loew ben Bezalel, morto nel 1609, il cui nome è indissolubilmente legato alla leggenda del Golem. Non è del tutto da escludere una discendenza del nonno da questo illustre personaggio, entrambi appartenenti alla famiglia dei Levi (Loew è la traduzione ashkenazita) e provenienti dalla medesima zona di Praga. Il nonno materno, che aveva avuto a sua volta un ruolo importante all’interno della sua Comunità come Presidente della Sinagoga degli Zingari, impegnato soprattutto in attività caritatevoli, era ricordato dal nipote come una persona gentile, ma molto rigida, con grande senso dell’umorismo e orgoglioso delle sue origini praghesi. La nonna materna, Rosa Taussig (Praga 1807 – 1895), era di alcuni anni più grande del marito (“come si usava allora”, ricorda nei Diari il nipote), e fu grazie alle sue abilità nel commercio che la famiglia Schlosser, composta di undici figli, e proprietaria di un negozio di biancheria, riuscì a prosperare tanto da poter cambiare casa, per trasferirsi dalla zona povera del ghetto di Praga, nella più borghese Bergmansgasse, dove nacquero Ludwig, terzo figlio dopo le sorelle Hermina e Bertha, e prima del fratello Max . Amava molto l’atmosfera semplice e patriarcale della sua famiglia di origine, di cui esaltava il rito del riposo sabbatico, quando il padre indossava il cilindro e la madre il suo vestito migliore per recarsi in Sinagoga a pregare. E proprio un aneddoto legato alla vita sinagogale praghese, da lui ricordato nel 1933, segnò precocemente la sua passione per l’archeologia: “Quando ero ancora ragazzo ero molto impressionato dalla Alte Neue Synagoghe e dal cimitero di Praga con le sue tombe monumentali e gli alberi di sambuco in fiore. Spesso mi sono aggirato in quei luoghi e una volta sono stato testimone di quando un rotolo della Torà inutilizzabile e frammenti dello stesso rotolo venivano sepolti e coperti di calce. Non sono riuscito a fare a meno di prendere uno di questi frammenti. La solennità che trasmetteva questa pergamena mi ha attratto fortemente, ancora oggi la posseggo” . Come evidenzia la Guldan sono molto rari gli accenni nei Diari alla sua collezione di judaica, mentre più di una volta fa riferimento a collezioni pubbliche di oggetti rituali ebraici, come ad esempio la collezione di antichità ebraiche ammirata nel Museo di Arti Decorative di Dusseldorf, nell’estate del 1908, e da lui considerata estremamente significativa per la storia sociale di Francoforte . Sebbene nell’inventario post mortem dei suoi beni redatto dalla cognata Margaret Nicod Sussman, sorella della seconda moglie, al momento della donazione Pollak al Comune di Roma, non ci sia traccia di oggetti di judaica, la loro presenza tra le collezioni dell’archeologo è fuor di dubbio, come ricordava lui stesso nel novembre del 1915 in occasione di una sua visita al museo ebraico di Praga: “Ho visto con dolore i cancelli di metallo antico della Sinagoga degli Zingari che una volta stavano al centro della sinagoga e poi i paroket e i cimeli, ci sarebbe molto da fare e voglio donare anche una parte delle mie cose antiche judaiche che sono a Roma” . L’unico manufatto di origine ebraica di cui scrive più di una volta nei Diari è la famosa Haggadà spagnola del XIV secolo, ora conservata presso il Jewish Theological Seminary di New York, e conosciuta come Haggadà Prato, dal nome dell’ultimo proprietario, Jonathan Prato, figlio del rabbino David Prato, e da lui venduta all’istituzione americana nel 1964. Mentre dai Diari sappiamo che l’importante acquisto ebbe luogo a Roma nel 15 novembre del 1908 (“Comprato manoscritto di Haggadà del XIV secolo proveniente da Mantova, prima di proprietà di un Finzi e poi del dott. Norsa” ), da un inedito carteggio relativo alla collezione di incunaboli di Pollak ora rintracciato presso l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma “Giancarlo Spizzichino”, conosciamo anche il nome del venditore, un tal Funaro a Piazza di Spagna, di cui però non abbiamo altre notizie. È palpabile e condivisibile l’entusiasmo di Pollak per questa sensazionale scoperta che mostrava orgoglioso ai suoi ospiti e addirittura portava con sé durante i viaggi per sentire il parere degli esperti e per proporla ad illustri collezionisti. Nel 1927, per esempio, la fece vedere nel suo albergo ad Amburgo a Paul Rosenbacher, che aveva conosciuto nel Museo di arti decorative di quella città . Il giorno dopo la mostrò ai curatori del Gabinetto delle stampe di Berlino: “Fatto vedere l’Haggadà a G.R. Friedlander, e anche al dottor Rosenberg, il suo assistente, anche molto interessato” . Come sottolinea la Guldan, Pollak per capire il valore del suo manoscritto volle conoscere a fondo la letteratura sulle haggadot, e nell’ottobre del 1928 tornò a Berlino dove Rosenberg gli fece conoscere la pubblicazione di Schlosser Mueller sull’haggadà di Sarajevo, mentre il dottor Spanier, curatore del reparto di judaica della Biblioteca Statale, gli mostrò “il libro di un italiano sull’Haggadà di Darmstadt” . Due settimane più tardi, riporta sempre la Guldan, Pollak si spostava a Londra dove fece vedere il suo prezioso manoscritto a Sir Israel Gollancz commentando poi nel suo diario: “Ho conosciuto molti anni fa a Roma sua moglie da ragazza, nipote di Frin. H. Hetz. È professore di letteratura inglese dell’Università di Londra ed è un uomo molto istruito e entusiasta dell’Haggadà” . Alcuni giorni più tardi Pollak mostrò il manoscritto anche ad altri collezionisti inglesi amici del suo amico Robert Mond: “Da Mrs Sassoon: ambiente completamente indiano, era una donna anziana con capelli bianchi e grandi occhi vivaci, il figlio timido (all’incirca 50 anni) e una nuora molto bella. Conversazione sull’Haggadà. Lui mi ha fatto vedere un’Haggadà del XIII secolo di Avignone che è stata di proprietà del famoso politico politico francese Crémieux per più di cinque secoli e che ha molte miniature. Conversazione su Lord Melchett. Grande semplicità nella casa, ma traspare un’enorme ricchezza. Parlavano in parte indiano e in parte ebraico con i due servitori indiani. Il Moshè portava caffè e marmellata di mele cotogne. La moglie serviva. Visita di un’ora e mezza molto interessante. La stanza al pian terreno con caminetto. Nessun’opera d’arte nella stanza. Una pura espressione di matriarcato”. Anche nel 1931, in occasione del suo ultimo viaggio all’estero riportato nei Diari, Pollak aveva con sè l’haggadà.