Rav David Prato tornò alla guida della comunità di Roma nel 1945 al termine di una delle parentesi più tragiche per gli ebrei della Capitale, e dal pulpito di legno che giace relegato da tanti anni in un angolo buio del tempio grande teneva le derashod al pubblico. I suoi discorsi sono raccolti in un volume intitolato “Dal pergamo della comunità di Roma”, consegnato in dono a tante famiglie negli anni ’50 dall’amministrazione. Shavuot è l’oggetto di due brani che hanno in comune il tema principale. La libertà. Un patrimonio che il popolo ebraico è pronto a condividere con tutta l’umanità. Rav Prato da grande oratore, ne invoca la proclamazione ben al di là dei confini dei templi o delle chiese; le genti, secondo lui avevano bisogno di una diffusione capillare del Decalogo; come per le discussioni politiche, gli spazi aperti potevano diventare luoghi in cui affrontare i principi morali racchiusi nei 10 comandamenti. In piazze, colline e montagne si augurava che un giorno il Sefer sarebbe stato innalzato come un vessillo per tutti i popoli. Siamo ai primi di giugno del 1947 e il riferimento alla contemporaneità non può che essere la liberazione di Roma avvenuta soli tre anni prima. Per gli ebrei della capitale una “resurrezione” che si era potuta compiere a suo dire, grazie ai soldati ebrei di Erez Israel che avevano lasciato il sangue e che erano eroi al pari dei martiri del ghetto di Varsavia.
Passavano due anni, e di nuovo Shavuot era al centro di un altro intervento che si intrecciava con la cronaca. Gli shalosh regalim, riprendendo una massima rabbinica, erano simbolicamente paragonati a tre uomini che procedono per strada. Il più autorevole cammina al centro ed ha a fianco gli altri due. Tutte e tre le feste sono connesse al tema della libertà. Quella politica a Pesach e quella economica a Sukkot. Ma la libertà morale che contraddistingue il messaggio di Shavuot è centrale nel pensiero ebraico. Ad avvalorare tutto questo arrivava, nelle parole del rabbino capo la tradizione rabbinica sul versetto delle tavole, che propone di leggere invece che incisa harut sulla pietra, herut ovvero libertà. Ma quel 2 giugno del 1949 oltre ad essere il terzo anno in cui si festeggiava la festa nazionale, si inaugurava a fianco del Circo Massimo, proprio nell’area in cui insisteva il vecchio cimitero ebraico dell’Aventino, il monumento a Mazzini. Trovava compimento un progetto votato dal Parlamento oltre 50 anni prima e mai portato a termine. Era morto da decenni Ettore Ferrari, l’artista che l’aveva ideato, e un suo allievo ne curava finalmente il completamento del lavoro. Si trattava di Giuseppe Guastalla, lo scultore che aveva realizzato il busto di Samuele Alatri presente ancora oggi nel giardino del tempio. Il basamento della scultura celebrava la libertà da ogni tirannide, caposaldo e “scintilla messianica” del pensiero mazziniano. L’occasione era propizia allora per presentare la lettera amichevole che l’apostolo del Risorgimento italiano aveva scritto nel 1870 a rav Elia Benamozegh, insegnante di rav Prato da ragazzino. Il manoscritto donato da Pellegrino Ascarelli, dai primi decenni del ‘900 era conservato come una reliquia presso l’archivio della Comunità. Il messaggio intimo di quello scambio di idee tra i due pensatori era racchiuso in questo ultimo passaggio della derashà:
“Se un uomo come Giuseppe Mazzini invia il suo saluto fraterno ad un ebreo e per giunta Rabbino vuol dire che, quando lo si vuole, quando si è raggiunto cioè quella libertà interiore, che la nostra festa di Shavuoth simboleggia, si sentono crollare le barriere che dividono uomini e popoli, preludendo l’avvento messianico al quale ciascuno di noi, purché lo voglia, può collaborare osservando quella Legge che dall’alto del Sinai fu promulgata nel giorno di shavuot”.