C’è una fotografia di Benito Mussolini che è passata alla storia come fra i primi ritocchi propagandistici. Il duce viene ritratto in groppa a un bellissimo e scattante purosangue arabo, mentre brandisce la spada dell’Islam a Tripoli. Il condottiero nella posa eroica, con la scimitarra d’argento protesa verso il cielo, sembra quasi stia spronando il destriero alla carica. Ma c’è un altro scatto dello stesso istante più veritiero che ridimensiona e rende meno olimpica la stazza sovrappeso del capo del fascismo dove, per ammansire il cavallo, un inserviente arabo tiene con due mani ben stretto il morso.
Per organizzare l’evento di pura propaganda, in seguito divenuto monumento equestre posto a imperitura memoria davanti a Castel Benito in Piazza Italia a Tripoli, i fascisti usarono non pochi soprusi come ricorda bene la mia famiglia. Quando la Libia divenne colonia italiana, mio nonno si trasferì a Zuara a pochi chilometri da Gerba, l’isola dove viveva la sua famiglia d’origine non lontana dal confine con la Tunisia. Erano anni di grande fermento e il padre di mia madre era appassionato di cavalli. Essendo ufficiale di cavalleria del regno, decise di mettere su un allevamento per rifornire l’esercito italiano. L’attività era proficua e i quadrupedi migliori venivano addestrati per le corse che all’epoca erano di gran moda. La vita in Libia era piacevole ed elegante, attraente per i ricchi turisti in cerca di esotismo e forti emozioni. Il deserto, la caccia e le città che si affacciavano sul Mediterraneo appagavano il desiderio d’avventura dei visitatori che poi trovavano l’anelato confort negli eleganti alberghi della costa.
Ma l’atmosfera di tranquillità e benessere che il fascismo aveva creato artificialmente a poco a poco svanì per gli ebrei che, per primi, poterono vedere il lato violento e brutale del totalitarismo. Nel 1934, Italo Balbo decretò che il giorno festivo nella colonia era la domenica, fregandosene della maggioranza della popolazione araba ed ebraica che riposava il venerdì e il sabato e minacciando punizioni severe per chi non ubbidiva. Gli ebrei furono i primi a subirle, due commercianti che avevano deciso di tenere le botteghe chiuse per rispettare lo Shabbat furono fustigati nella pubblica piazza come esempio per chi avesse avuto intenzione di trasgredire gli ordini del viceré.
Le leggi razziali promulgate il 5 settembre 1938 furono solo l’apice delle sopraffazioni perché già da qualche anno la propaganda razzista aveva sottratto lavoro e libertà agli ebrei. A mio nonno, l’esercito revocò l’appalto della fornitura di cavalli, il regime preferì importare gli animali dall’Italia con estenuanti viaggi via nave fino alla Libia. Il padre di mia madre era anche un’eccellente fantino, aveva dei purosangue bellissimi che avevano vinto gare negli ippodromi della Libia, molti glieli invidiavano. Così quando il duce nel 1937 volle inaugurare la via Balbia, la litoranea di 1800 chilometri costruita in tempi da record per unire la cirenaica Bengasi a Tripoli, un manipolo di fascisti si presentò nella scuderia del nonno e gli requisì gli animali più belli. Il cavallo della foto è uno di quelli, era il suo preferito.
Mia nonna mi raccontava che lui non si perse d’animo e per mantenere la famiglia continuò a gareggiare. Un giorno, però, accaldato e sudato dopo una corsa si ammalò di polmonite e morì in giovane età.
Ma il destino gli offrì una rivincita postuma grazie alla famiglia di mio padre. Dopo la sconfitta di El Alamein il 23 gennaio del 1943, gli italiani persero la Libia e il generale Montgomery entrò a Tripoli al comando dell’VIII armata. Gli ebrei furono finalmente liberati dal giogo nazifascista, tra cui mio zio Lillo che aveva rischiato di essere deportato insieme al padre dai tedeschi. Furono salvati grazie al passaporto francese e all’ambasciatore a Tripoli che scatenò una crisi diplomatica fino a quando i due cittadini della République non furono rilasciati dal campo di prigionia di Giado situato nel deserto, 100 chilometri a sud di Tripoli.
Qualche tempo dopo la liberazione, zio Lillo fece forgiare una spada del peso di un chilo e mezzo d’oro. Sul manico fece incidere la Stella di David e la scritta “paladino della libertà” in ebraico e la donò al conquistatore della Libia. Nella lettera dedicatoria a Montgomery, il fratello di mio padre si volle contrapporre ideologicamente a chi aveva donato la spada dell’Islam a Mussolini.
Come molti eroi della Seconda Guerra Mondiale, finite le ostilità Montgomery fu rimpatriato e si ritirò a vita privata. Della spada non si hanno avuto più notizie, rimangono solo gli articoli dei giornali dell’epoca e lo scambio di corrispondenza. Come ricoperta sotto la coltre di sabbia portata dal Ghibli, il vento del deserto, i protagonisti di quest’impresa non ci sono più e, passati molti anni, la storia è stata purtroppo dimenticata.