Nel 1955, a dieci anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, Primo Levi scrisse un breve testo sulla memoria del Lager dichiarando la sua preoccupazione nel “costatare che, almeno in Italia, l’argomento dei campi di sterminio, lungi dall’essere diventato storia, si avvia alla più completa dimenticanza”.
Una dimenticanza che avrebbe potuto legittimarsi anche attraverso il silenzio dei testimoni, che invece a un certo punto decisero di raccontare, e Levi in questo senso fu tra i primi. Una dimenticanza che si sarebbe potuta nascondere dietro il silenzio della cultura, forti del monito di Theodor W. Adorno sull’impossibilità di scrivere poesie dopo Auschwitz: “… è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie”. Con queste parole veniva espresso il dubbio rispetto alla capacità dello stesso pensiero critico di misurarsi con lo sterminio.
Fortunatamente ci fu chi reagì all’affermazione adorniana, primo fra tutti il poeta rumeno Paul Celan che si confrontò con la sentenza del filosofo tedesco, lottando per affermare il riconoscimento della propria opera, con cui intendeva restituire voce alle vittime della Shoah. Così Celan infrangeva per la prima volta, dopo la fine della guerra, il muro di rimozione dei crimini nazisti.
Anche gli artisti, e non fanno eccezione gli israeliani, hanno cercato di mettere in movimento i processi della memoria, attraverso opere che vanno dalla provocazione alla riflessione profonda, dall’accusa alla resilienza. Con l’uso di mezzi e linguaggi espressivi diversi, molti artisti israeliani hanno messo in scena nel corso degli ultimi decenni il sentimento di vuoto e perdita, mosso spesso dalla necessità da parte dell’artista di avviare un processo volto a rintracciare le proprie origini famigliari. È così, ad esempio, che Vardi Kahana (Tel Aviv, 1959) dà vita al progetto fotografico One Family (1992), una narrazione sull’identità israeliana incarnata dalla famiglia dell’artista stessa. Nella foto Three Sisters, Kahana ci presenta la madre con le sue due sorelle strette in una sorta di abbraccio in cui appaiono in evidenza i numeri marchiati a fuoco, nell’ordine consecutivo con cui furono tatuate ad Auschwitz nel 1944. In questo modo l’artista è stata in grado di rivelare le radici della storia di chi, reduce dai campi di sterminio, è riuscito a portare avanti la vita in un autentico spirito di resilienza. Anche il lavoro di Maya Zack (Tel Aviv, 1976) parte da una riflessione intima e famigliare. Come lei stessa ha dichiarato, i suoi numerosi lavori video e installativi sui processi di trasmissione della memoria, nascono a seguito di un viaggio che fece con il padre nel 2006 alla ricerca delle proprie radici che l’hanno condotta a Kosice in Slovacchia, nella casa della nonna emigrata in Israele prima della guerra, mentre il resto della sua famiglia rimase in Europa trovando la morte ad Auschwitz. Con questo spirito nasce il video Counterlight(2016) che insieme a Mother Economy (2007) e Black and White Rule (2011) compongono una trilogia incentrata sulla Shoah e il concetto filosofico di memoria.
Ci sono poi artisti che hanno affrontato il tema in chiave irriverente, con un distacco solo apparente ma che in realtà cela un trauma con cui l’intera umanità è costretta a convivere. È il caso di Gil Yefman (Tel Aviv, 1979) che ha elaborato il tema della Shoah nella mostra provocatoria Kibbutz Buchenwald, tenutasi al Tel Aviv Museum nel 2018, in cui una verde e sensuale siepe all’uncinetto nasconde i disegni delle strutture architettoniche dei campi. L’installazione prende le mosse dalla lettera scritta nel 1943 dal comandante del campo di sterminio di Auschwitz che ordinava al direttore del ramo agricolo delle SS di procurarsi cespugli, arbusti e alberi che servissero da camuffamento naturale per nascondere i forni crematori. Anche l’installazione di Boaz Arad (Tel Aviv 1956 – 2018), realizzata al Center for Contemporary Art di Tel Aviv nel 2007 dal titolo The Nazi Hunters Room, gioca sullo choc visivo, al limite del lecito. L’artista per l’occasione aveva esposto un tappeto di silicone con le fattezze di Hitler, scuoiato come un trofeo di caccia, attorno al quale campeggiavano una serie di svastiche su tela dai colori accesi, spingendo così i confini di ciò che è considerato bello e desiderabile nell’arte.
(Boaz Arad, The Nazi Hunters Room, 2007. Installazione al Center for Contemporary Art, Tel Aviv)
Shahak Shapira (Petah Tikva, 1988) usa invece i social per denunciare in modo sfrontato l’abuso delle immagini che ci ha condotto ad un’irrimediabile assuefazione. Nel progetto Yolocaust (2017) l’artista denuncia il rito del selfie pubblicando una dozzina di foto pescate tra Instagram, Facebook e altri canali in cui le persone si immortalano nel Memoriale di Berlino, elargendo sorrisi e atteggiamenti in posa incuranti del luogo in cui si trovano. Così Shapira ha rielaborato quelle foto inserendo i corpi scheletrici, i cadaveri, le fosse comuni che abitavano i luoghi evocati dal Memoriale. L’effetto è macabro ma allo stesso tempo è un momento di grande riflessione sullo svuotamento di significato del processo di elaborazione e superamento del dramma.
(Shahak Shapira, Yolocaust, 2017)
Se Shapira ricontestualizza il luogo della memoria, il fotografo Simcha Shirman (Germania, 1947) con un procedimento opposto, preleva un oggetto comune come un cucchiaio, trasportandolo in una dimensione soggettiva che non può prescindere dal significato iconologico che ognuno di noi gli attribuisce (Whoose Spoon Is It?, 2011).
(Simcha Shirman, Whose Spoon Is It? S.S. 470430-110927, 2011. Fotografia © Simcha Shirman)
Ci sono infine artisti israeliani che si sono adoperati nella realizzazione di memoriali e installazioni permanenti in dialogo con la storia dei luoghi, come l’Omaggio a Walter Benjamin di Dani Karavan (Tel Aviv, 1930-1922) realizzato a Portbou, dove il grande filosofo tedesco si tolse la vita nel 1940, quando si vide ritirare il passaporto che lo avrebbe salvato dalla persecuzione nazista.
(Dani Karavan, Man walking on railways, Dusseldorf, 1989. Installazione video al Museo di Roma – Palazzo Braschi per la mostra Zakhor / Ricorda fino al 12 febbraio 2023)
Di Micha Ullman (Tel Aviv, 1939), invece va citato Library (1995) in Bebelplatz a Berlino, luogo di origine dei suoi genitori. In ricordo del rogo dei libri per mano nazista nel 1933, l’artista ha realizzato una libreria sotterranea, visibile dal soffitto in vetro, che non contiene nulla. La scaffalatura vuota, l’assenza di libri ci riporta alla perdita irrimediabile di tutta quella cultura sottratta all’umanità.
(Micha Ullman, Library, 1995. Bebelplatz, Berlino)
Come abbiamo avuto modo di vedere, malgrado la trasversalità con cui gli artisti affrontano la memoria della Shoah, in tutti loro l’opera si trasforma in spazio vitale dell’azione, oltre che momento di riflessione.
Per concludere, oggi il timore di Primo Levi di cui abbiamo fatto cenno all’inizio, che la memoria della shoah possa cadere nell’oblio, è direttamente proporzionale alla scomparsa dei testimoni. La stessa senatrice Liliana giorni fa ha affermato: “Una come me è pessimista e ritiene che tra qualche anno sulla Shoah ci sarà una riga sui libri di storia e poi non ci sarà nemmeno più quella”. Dunque sta a noi perpetuare il ricordo usando ogni mezzo a nostra disposizione, e l’arte naturalmente non può e non deve esimersi da questo compito. Oggi l’arte diviene una nuova forma di documentazione, capace di interrogare il passato attraverso la testimonianza di un presente che non vuole rinunciare alla sua facoltà di ricordare.