Concitazione, terrore, claustrofobia. Urla, decibel in overdose e improvvisamente il silenzio. Lo sbarco in Normandia secondo Spielberg, ovvero “Salvate il soldato Ryan”, ci immerge di prepotenza in uno degli episodi cardine della liberazione dal nazifascismo. Una ventina di minuti senza fiato. Un tuffo nell’inferno dall’impatto visivo e sensoriale che nessun kolossal, hollywoodiano e non, del filone dei war movie, è riuscito ad eguagliare. Fuori dalla retorica della guerra giusta, della prospettiva nazionalista e dell’eroismo del militare americano, dello sventolio di bandiere, Spielberg ci ha immerso nell’incubo, senza se e senza ma, dei milioni di morti rimasti sul campo di una guerra scatenata dalla brama autocratica di un folle.
La Seconda Guerra Mondiale e le sue conseguenze restano un tema ad ampio spettro, capaci di ispirare capolavori cinematografici di valore storico, estetico e didattico, coniugati in vari filoni e trame. L’Italia, soprattutto con il neorealismo, a cominciare da “Roma città aperta” di Rossellini, ha fotografato la resistenza al nazifascismo all’indomani dello sbarco degli Alleati e il grido di un popolo piegato e sofferente.
Se la Guerra fredda è un argomento fortemente cavalcato da Hollywood nel primo periodo postbellico, per tutti i cineasti, sia europei che americani, temi di grande impatto sono stati e sono la caduta di Hitler, l’orrore della Shoah, la difficile rinascita, i campi di battaglia, l’antimilitarismo. Le atrocità della politica razziale nazista dovranno però aspettare anni prima di essere riportate sul grande schermo. La disumanità delle immagini girate dagli alleati durante la liberazione dei campi di sterminio veniva considerata scioccante per proporla ad un pubblico comune, pur nella trasposizione cinematografica. Solo nel ’59 gli Stati Uniti producono “Il diario di Anna Frank”. L’anno dopo, con “Exodus”, Otto Preminger rivela la pesante condizione degli ebrei sopravvissuti alla Shoah: profughi a cui l’Inghilterra tentò di impedire l’immigrazione nel mandato di Palestina poco prima della fondazione dello stato di Israele.
Nel 1961, il potente e polemico “Vincitori e vinti” di Stanley Kramer fa i conti con la storia e porta sul grande schermo uno dei dodici processi di Norimberga ai criminali nazisti. Sul banco degli imputati quattro giudici tedeschi accusati di aver contribuito con le loro sentenze al genocidio del popolo ebraico. A presiedere il tribunale militare un integerrimo Spencer Tracy, sordo ad ogni tentativo di intervento diplomatico volto a non inasprire i rapporti tra Stati Uniti e Germania con una condanna troppo dura. Il verdetto sarà esemplare, in nome della giustizia, della verità e del valore di ogni essere umano.
Con le tante prospettive da cui hanno guardato al secondo conflitto, gli Stati Uniti ci hanno offerto uno scenario sfaccettato di quegli anni e delle loro conseguenze. Dall’ironia di Chaplin con “Il grande dittatore” al sarcasmo di Kubrik con “Il dottor Stranamore”, passando per i film di John Huston, Spielberg, Malick, Eastwood. Dalla cinematografia di propaganda a quella di denuncia, fino al realismo più crudo. Raggiungendo milioni di spettatori, anche in Europa, hanno sicuramente contribuito alla formazione di una coscienza collettiva contraria alle soluzioni belliche, all’uomo globale che in Italia celebra il 25 Aprile come la data che segna lo spartiacque tra la dittatura e la libertà, tra il buio della ragione e la democrazia. E che non dimentica, si spera, lo guardo attonito di Alberto Sordi, il sottotenente Innocenzi di “Tutti a casa” di Luigi Comencini, durante i giorni dell’armistizio. Giorni di confusione, di miseria umana e di tragedie di cui è cosparsa la strada per tornare a casa. Un labirinto di uomini ed emozioni, in cui ritrovare la dignità diventa la scommessa più difficile, che non tutti hanno vinto.