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    Il cuore da campione di Ludwing Guttmann – Intervista a Roberto Riccardi

    Ludwing Guttmann era un neurochirurgo e neurologo ebreo, riuscito a sfuggire agli orrori del nazismo trasferendosi in Inghilterra, proprio lì curava i soldati che tornavano dal fronte con lesioni spinali.  “Un cuore da campione – Storia di Ludwig Guttmann inventore delle Paralimpiadi” (Giuntina) scritto da Roberto Riccardi racconta la storia di Guttmann, che non fu solo un medico, ma un rivoluzionario che diede una dignità alla disabilità utilizzando lo sport come terapia riabilitativa e che fondò nel 1960 le prime Paralimpiadi. Shalom intervistato l’autore di questa biografia per capire l’eccezionale grandezza di questo innovatore. 

     

    Come è nata l’ispirazione di raccontare la storia di Ludwig Guttmann?

     

    La storia mi è stata proposta dalla casa editrice Giuntina. Mi sono preso un po’di tempo per documentarmi anche perché in Italia si conosceva molto poco di questa storia. La figura di Guttmann è straordinaria e può essere d’esempio in questo mondo e in questo tempo a tutti. Guttmann è stato l’autore di una vera e propria rivoluzione disarmata, cambiando il mondo senza sparare un colpo, migliorando la vita di migliaia di persone e la percezione che si ha di loro. 

    Questa rivoluzione ha molto di italiano. Guttmann ha varato i suoi giochi di Stoke Mandeville nel 1948, facendoli diventare internazionali nel 1950 e tra le prime delegazioni a partecipare c’era quella di Antonio Maglio, medico barese dell’INAIL che si occupava dello stesso tipo di lesione di cui si occupava Guttmann. Dalla collaborazione tra i due nacque la prima edizione delle Paralimpiadi a Roma nel 1960. Di edizione in edizione questa manifestazione è cresciuta.

     

     

    Guttmann pronunciava sovente questa battuta: “Trasformare mielolesi privi di speranza in contribuenti del fisco”.  Curando i soldati che tornavano dal fronte con lesioni spinali, Guttmann elaborò una serie di terapie che diventeranno poi vere e proprie gare sportive. Fu il primo vero nuovo approccio alla disabilità? 

     

    Lui usava questa battuta perché voleva che i suoi assistiti tornassero a sentirsi e rendersi utili alla società, era il sogno che ognuno di loro aveva. Si passò da una mortalità praticamente totale alla sopravvivenza per la maggior parte di loro. Lo sport fu la leva per riportare questi giovani a vivere, a lavorare, ad avere famiglia. I giovani sono i protagonisti dell’avventura di Guttmann e sono i primi, ma non unici, destinatari di questo libro. Confido nello sport che unisce ed appassiona i giovani. In questa vicenda umana che è la storia di Guttmann c’è la cura dell’altro, la medicina, la storia, la Shoah ma soprattutto lo sport che è una motivazione meravigliosa per tutti i ragazzi che con esso imparano il valore dell’amicizia, della competizione sana, della lealtà nel gareggiare e diventano più forti nel fisico e nel cuore. Una sfida più a se stessi che agli altri, perché lo sport, dal mio modesto punto di vista, è soprattutto migliorare la propria prestazione, non solo per battere gli altri ma per fare meglio le cose. Riuscire sempre a puntare un po’ più in alto e a fare qualcosa in più attraverso l’impegno, la costanza, la determinazione, questo è una palestra di vita e non solo di attività agonistica. Capire i nostri limiti cercando sempre di superarli, perché spesso le barriere ce le mettiamo da soli. È sempre possibile qualcosa in più, la vita è un cammino ed anche un continuo cambiamento e miglioramento di sé stessi.

     

    La disabilità divenne un riscatto nei confronti della società? 

     

    Più che altro era un riscatto verso se stessi, riprendersi la vita che era stata resa difficile dalla malattia o dalle ferite. Loro potevano vivere ancora e sentirsi parte della società.

     

    Dal suo libro ne esce un uomo buono, Guttmann in tedesco vuol dire proprio questo.

     

    Lui si sentiva il padre di quei ragazzi e loro lo sentivano come tale anche se li costringeva a grandi sacrifici. La terapia di riabilitazione era molto dura ma loro con un vezzeggiativo lo chiamavano “papà”. Guttmann girava di giorno e di notte per la clinica per assicurarsi che le cure fossero praticate come lui indicava. Ad esempio chiedeva che i pazienti venissero girati ogni due ore o proni, o supini o su un fianco, per evitare le piaghe da decubito. Una figura che in Italia si conosceva poco nonostante questa storia abbia toccato l’Italia facendo qualcosa di immenso. Sono migliaia gli atleti paralimpici, ci sono più di 190 comitati paralimpici nel mondo. Grazie a lui è cambiata completamente la percezione della disabilità. C’è molto più rispetto, molta più attenzione e benevolenza. Una scintilla che è diventata un incendio.

     

    Il prologo del suo libro è dedicato ad Alex Zanardi. Cosa rappresenta questo campione?

     

    Alex Zanardi è un esempio di come si possano affrontare le disavventure della vita. Non a tutti capita di ritrovarsi su una sedia a rotelle ma a tutti capita, prima o poi, di avere delle disavventure o delle disgrazie. Farsi forza, combattere, anche nelle condizioni più difficili è un insegnamento che viene offerto a tutti. Si può gareggiare, si possono vincere degli ori olimpici, si può diventare campioni del mondo anche con una menomazione così grande. Il prologo rivolto a Zanardi che attualmente è ricoverato dopo l’incidente dello scorso anno, gli chiede di non arrendersi, di farcela anche per un altro cuore da campione che non ha conosciuto in vita, Ludwig Guttmann, che ha lavorato tutta la vita per rendere possibile ciò che oggi fa gareggiare nel mondo gli atleti paralimpici. 

     

    Questa storia rappresenta un inno alla vita? 

     

    Questa storia è uno straordinario, sconfinato inno alla vita. Guttmann ha fatto questo come risposta alla logica della morte della Shoah e dello sterminio nazista. Il Terzo Reich perseguitava gli ebrei e i disabili e lui ebreo ha dedicato la sua esistenza ai disabili facendo in modo che tornassero a vivere, a credere in se stessi e ad avere una dignità riconosciuta.

     

    Nelle sue opere c’è un tema ricorrente che è la memoria. Quanto è importante salvaguardarla e diffonderla? 

     

    Avere un futuro migliore passa per la conoscenza del passato, per non ripeterne gli errori e per trarne degli insegnamenti. Questo è passaggio ineludibile, soltanto così possiamo capire il presente e lavorare perché domani sia migliore di oggi. La memoria delle stragi, del terrorismo, della Shoah, delle grandi ferite dell’umanità che, dal mio punto di vista, non hanno un colore preciso, hanno il colore dell’anima che ci sta dietro, quindi è proprio da se stessi che bisogna scacciare il male per poter sperare in una società migliore.

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