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    Il caso Mortara nelle “Croniche” del rabbino Angelo Citone

    Rav Angelo Mordechai Citone (1813-1894) fu un importante rabbino romano dell’Ottocento. Anche suo padre Isacco e suo nonno Giacobbe erano rabbini. Tutti e tre sono noti per essere gli autori delle “Croniche” della famiglia Citone, un testo scritto in ebraico e in italiano contenente molte notizie sulla loro vita e sugli eventi che coinvolsero la Comunità ebraica di Roma, oltre a diverse annotazioni di carattere storico, liturgico, halakhico e altro. Soprattutto è una miniera di informazioni sui membri della Comunità. Il manoscritto è stato pubblicato a Roma nel 1988 per le Edizioni di Storia e Letteratura, con la trascrizione e traduzione di Rav Alberto A. Piattelli, prefazione di Giuseppe Sermoneta e cura di Simona Foà, per iniziativa del nipote di Rav Citone, Piero Modigliani, di cui è appena uscita la seconda edizione del diario personale sul periodo buio delle persecuzioni nazifasciste. 

    Fra gli eventi descritti nelle “Croniche”, circa una pagina e mezzo è dedicata al caso di Edgardo Mortara, il bambino ebreo segretamente battezzato dalla domestica cattolica quando aveva meno di un anno e poi, a fine giugno del 1858, all’età di sei anni, sottratto alla famiglia dalle guardie dell’Inquisizione e portato a Roma alla Casa dei Catecumeni per essere educato alla fede cristiana. La descrizione di Rav Citone è tanto più significativa perché contemporanea ai fatti.

    Ecco come, nella traduzione di Rav Piattelli, Rav Citone descrive la trista vicenda, tornata ora al centro delle attenzioni con l’uscita del film di Bellocchio (“Croniche”, pp. 182-185):

     

    Con l’aiuto del Signore

    Un brutto fatto è accaduto al nostro tempo, e chiunque lo udirà gli si drizzeranno le orecchie. Nell’anno 5618 dalla Creazione, nella città di Bologna risiedeva una famiglia di nome Mortara in mezzo agli altri fratelli, i figli di Israele. Avvenne un giorno che si ammalò quasi al punto di morire Gad Yosef figlio di Miriam il quale ancora succhiava il latte dalle mammelle di sua madre. Appena la domestica non ebrea vide che stava sul punto di morire, gettò le inique acque sulla sua fronte allo scopo di convertirlo, e non rivelò a nessuno quanto aveva fatto. Con l’aiuto di Dio, il fanciullo sopravvisse alla sua malattia. Dopo cinque interi anni la domestica si ricordò di quanto aveva fatto al fanciullo e andò, la malvagia prostituta, a confessare secondo le leggi dei cristiani senza alcun rimorso per la sua anima, e disse al prete quello che le sue mani avevano compiuto. Subito il confessore scrisse all’Inquisizione per chiedere che cosa avrebbe dovuto fare al fanciullo convertito e gli risposero che doveva allontanare il fanciullo da suo padre e da sua madre, e condurlo immediatamente a Roma. Egli non tardò ad eseguire tutto quanto gli era stato ordinato.

    Inviò delle guardie che circondarono la casa e intimarono «Dateci Gad Yosef che ci appartiene!». Quando i suoi genitori udirono queste parole, il loro cuore venne meno dentro di loro trasformandosi in pietra, e non poterono rispondere nulla in quanto erano rimasti sbigottiti. Restarono in lutto, in dolore, tristezza e afflizione senza poter esser di alcun aiuto e giovamento. Quelli fecero salire il fanciullo rapito in una carrozza insieme con chi lo custodiva con grande cura, e lo condussero alla casa dei Catecumeni per fargli studiare la religione di Gesù. Dopo due giorni i suoi genitori partirono dietro di lui, perché prima di ciò era stato impossibile per loro partire per due motivi: primo, per lo stato di prostrazione in cui erano rimasti, e, secondo, in quanto non avevano permesso loro di seguire il fanciullo. Appena giunti al luogo dell’iniquità, si presentarono per prima cosa ai capi della Comunità che in quel tempo erano i signori consiglieri Mosè Levi, Angelo Samuele Del Monte e Crescenzo figlio di David Bondi. Raccontarono loro tutto quanto era loro capitato, ed appena ebbero ciò udito, si strapparono le loro vesti e si gettarono in terra e dissero: «Ohi, ohi! non c’è chi possa salvarci!». Da quel giorno in poi si fecero forza per implorare e chiedere grazia ai Cardinali ed agli Ambasciatori e a tutti i dignitari di corte affinché il fanciullo venisse restituito alla famiglia, ma senza successo. E dopo tutte queste richieste senza riscontro arrivarono i signori consiglieri alla decisione di scrivere una lettera di supplica al Papa Pio IX, nel rispetto di tutte le formalità, facendo riferimento ai decreti dei più antichi Pontefici secondo cui quanto accaduto non doveva avere alcun valore, anche basandosi su altri presupposti. In primo luogo che in quanto alla donna si doveva trattare di una rinomata prostituta, in secondo luogo, che un fanciullo lattante dal seno di sua madre doveva essere considerato come un pezzo di legno o di pietra e tante altre considerazioni. E se tutte queste considerazioni non avevano valore, lo facesse almeno in virtù della sua carità e della sua misericordia, e restituisse il fanciullo a suo padre e a sua madre. Tutto ciò non fu a loro di alcun giovamento in quanto il fanciullo era già stato presentato a Pio IX, che lo aveva segnato della croce sulla fronte, sicché non esisteva più alcun rimedio alla loro richiesta. Ogni fatica, parole e tempo furono spesi invano. Chi può narrare le lacrime e i sospiri che riversarono i figli d’Israele ed in modo particolare suo padre e sua madre, dopo essere rimasti tre mesi fuori della loro casa allo scopo di salvare il loro figlio? Tornarono alla loro casa con l’animo afflitto e a mani vuote. Iddio misericordioso ci salvi dalle calunnie e dalle false testimonianze, dalla malalingua e da ogni decreto duro e cattivo che circoli per il mondo. Amen, così sia fatta la Sua volontà.

     

    Rav Citone, nominato chakhàm (insieme al medico Mosè Ascarelli, Angelo Fornari e Crescenzo Alatri) dai rabbini Ehrenreich e Sorani, docenti del Collegio Rabbinico Italiano, fu per un certo numero di anni “facente funzione” rabbino capo, come lui stesso scrive nelle “Croniche” alle pp. 140-141:

     

    Bisogna anche sapere che per qualche anno la nostra comunità rimase senza un rabbino, e io, il più misero fra tutti, piccola creatura, nullità di nullità, servii in quel periodo come Rabbino Capo, essendo il più anziano fra tutti i miei fratelli e amici della santa congregazione, non per la mia cultura ma per il rispetto per gli individui. Ripeterò ancora una volta ed un’altra ancora che accettai non per la mia saggezza o la mia intelligenza, ma per il rispetto verso la gente. E mentre sto scrivendo questo, abbiamo un Maestro a guida del santo gregge, e non dobbiamo sopportare il peso di tutto questo popolo su di noi.

     

    Dopo l’elezione di Rav Mosè Levi Ehrenreich alla cattedra rabbinica di Roma, nel 1890, Rav Citone fu manhìgdella Scola Tempio, insieme a Rav Crescenzo Alatri. Sulla sua tomba al cimitero del Verano è scritto (in ebraico) che le qualità di Rav Citone erano l’onestà, la scienza e la religione e che “era umile con tutti, di cuore nobile, tenerissimo per i poveri, fra i titoli di cui era onorato non ambiva che quello di insegnante di religione, marbìtz”. Il termine ebraico marbìtz significa “diffusore”, ed è detto in genere di chi insegna e diffonde la Torà, ma era caro a Rav Citone perché costituito delle iniziali del suo nome ebraico: Mordechai ben Itzchak.

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