La percezione di un’opera d’arte cambia nel tempo. Gli occhi con cui la società guarda un oggetto si modificano nei diversi periodi storici: Il gusto del pubblico e dei critici determinano il concetto di bellezza e talvolta modificano il vero significato che vuole dare l’artista. Per esempio, si può seguire nel tempo un’opera di uno scultore ebreo polacco e i diversi giudizi che sono stati dati in proposito al suo lavoro. È il caso del “Messia” di Henoch Glicenstein un artista nato nel 1870 a Turek (l’attuale Polonia) al tempo sotto il dominio Russo. Glicestein aveva sofferto un’infanzia in povertà, ma si era spostato a Monaco per studiare arte. Il momento di maggiore scoperta e di serenità arrivò quando si trasferì alla fine dell’Ottocento a Roma, scoprendo un ambiente culturale in fermento e nuove suggestioni. Dagli amici italiani – tra cui il pittore Giacomo Balla che gli dedicò un ritratto nel 1903 – era conosciuto come Enrico mentre riscuoteva i primi successi nelle esposizioni cittadine.
Lontano dal proprio paese natale riscopriva la tradizione ebraica e decideva di presentare una scultura chiamata “Messia” all’esposizione di Belle arti di Roma del 1908: un uomo seduto, con la testa china, ha vicino uno scudo con un Maghen David e nell’altra mano tiene uno shofar. Questa rappresentazione poteva certo sembrare poco vicina alla tradizione ebraica, nascondeva dei significati profondi recepiti in maniera positiva dalla stampa ebraica italiana di inizio Novecento. Molto diversi erano quelli che si potevano leggere più tardi sui giornali fascisti nel 1939 subito dopo le leggi razziali. In quel caso la scultura era riprodotta a tutta pagina e definita come l’opera di un “giudeo” e presentata come uno dei casi che aveva “inquinato” l’arte moderna.
In realtà il messaggio che voleva dare Glicenstein era molto sottile: quell’uomo dalla lunga barba più che pensoso è addormentato, in attesa di svegliarsi e annunciare un’era di pace.