Uno degli episodi meno noti della vita di Golda Meir fu il tentativo di inviare fondi ai ribelli del ghetto di Varsavia. Un mese prima della rivolta, i leader dello ZOB, l’organizzazione ebraica di combattimento di Varsavia, avevano inviato una lettera in ebraico allo Yishuv, la comunità ebraica in Palestina, in modo da non essere intercettati, per chiedere sostegno per la resistenza. Questo è quanto scrive Francine Klagsbrun nella biografia “Leonessa” dedicata alla prima ministra israeliana, ma anche la stessa Golda nella sua autobiografia. Attraverso l’Histadrut, l’organizzazione sindacale sionista-laburista, Golda aveva spedito in una prima fase cinquemila sterline ai ribelli. Pochi giorni dopo l’esplosione della rivolta, ci fu di nuovo una riunione dove Golda chiese ulteriori fondi: i partigiani avevano bisogno disperatamente di soldi per comprare armi.
Nella sua autobiografia, Golda rivela quello che lei e gli altri compagni della Yishuv stavano tentando in quei mesi. “Mellech Neustadt, nostro emissario ad Ankara ci disse che in Turchia aveva trovato gente in grado di instaurare contatti clandestini con gli ebrei di Polonia, e che, come del resto era ovvio, non si trattava proprio di angioletti. Oltre a pretende una grossa somma di denaro in cambio dei loro servizi, avrebbero incamerato una parte cospicua di tutto ciò. Noi però cercavamo soltanto emissari in grado di muoversi più o meno liberamente nell’Europa occupata dai nazisti. Fissammo come meta quella che per noi era una cifra da capogiro – settantacinquemila sterline- anche se sapevamo che soltanto una minima parte sarebbe giunta a destinazione. Gli ebrei avrebbero comunque potuto procurarsi armi e cibo, forse abbastanza da permettere la sopravvivenza dei movimenti ebraici di resistenza”.
Torniamo ai giorni della rivolta del Ghetto di Varsavia. Secondo Klagsbrun, Golda sperava di raccogliere almeno altre15mila sterline. “Dividete la somma tra di voi e tornerò tra mezz’ora per accettare i vostri assegni. Se discutete dell’ammontare, la macchia rimarrà su di voi”, disse ai dirigenti dell’Histradut. Gli assegni furono pronti in 15 minuti. Ma l’invio non era così facile. Gli americani e gli inglesi vietavano la spedizione di soldi nei territori occupati dal nemico. Inoltre, nella conferenza di Bermuda sui rifugiati, che si aprì proprio nei giorni della rivolta, la linea di intransigenza nei confronti degli ebrei dei territori occupati non cambiò, anzi venne ribadito che nessuna nave poteva essere messa a disposizione per eventuali rifugiati, non ci poteva essere nessun negoziato con Hitler e non era previsto nessun cambiamento al Libro Bianco che negava la possibilità di immigrazione in Israele.
Come ricorda Golda, lo stop all’immigrazione ebraica in Palestina era iniziato da tempo per i timori inglesi che gli arabi potessero allearsi con Hitler, ma questo era già in atto con la collaborazione del Muftì di Gerusalemme Amin al -Husseini. “Nel 1939, nonostante le crescenti persecuzioni e uccisioni di ebrei in Austria e in Germania, gli inglesi decisero che i tempi erano finalmente maturi per chiudere di colpo le porte della Palestina”, racconta Golda nella sua autobiografia.
Ma Golda non è donna da arrendersi e anche nell’ultimo momento possibile, ovvero agli inizi di maggio del ’43, organizza insieme a David Remez un’altra raccolta fondi per il salvataggio degli ebrei di Varsavia. Lo scopo è di “unirsi con i fratelli che si stanno ribellando nella Diaspora che non vogliono perire silenziosi e sottomessi ma morire con coraggio per salvare l’onore di Israele per le generazioni a venire”. Ormai è troppo tardi e anche la forza e l’ottimismo di Golda iniziano a vacillare insieme ai problemi di salute: lavora giorno e notte e fuma incessantemente. Il Ghetto di Varsavia cade il 16 maggio 1943. Golda si incolpa e incolpa i suoi compagni di non aver fatto abbastanza. “Mi vergogno”, disse e il fallimento, di quello che a posteriori potremmo definire un’illusione disperata, continuò a perseguitarla per lungo tempo.