Case da sogno dislocate nella campagna inglese e in Europa, che hanno intrecciano la loro storia con quelle di alcune famiglie ebraiche che con il loro gusto ne hanno condizionato architettura e collezioni. Simbolo di un riscatto nato durante l’emancipazione, e interrotto dalla Shoah, questi luoghi hanno ancora molto da raccontare. Attraverso il progetto quadriennale ‘Jewish Country Houses – Objects, Networks, People’ nato nel 2019 è stato possibile ricostruisce le vicende di queste dimore e riportare alcuni aspetti dimenticati nelle rispettive storie nazionali. Del gruppo di studio, messo insieme dalla prof.ssa Abigail Green, fa parte Silvia Davoli (Research Curator at Strawberry Hill House). Shalom l’ha incontrata al Museo Ebraico di Roma, partner del progetto per ricerche su residenze e collezioni ebraiche in ambito laziale tra Otto e Novecento. Storie ancora parzialmente inedite e affascinanti.
Quali sono le ragioni che hanno permesso la nascita delle Country Houses in ambito ebraico?
La prospettiva europea ci ha fatto capire che ci sono ragioni e posizioni diverse dietro a queste abitazioni. In Inghilterra le Country Houses, durante l’emancipazione, erano un modo per accedere al parlamento: con la proprietà terriera si aveva anche il diritto di candidarsi. Alcuni ebrei appartenenti all’élite, o banchieri come i Rothschild, attraverso queste proprietà si garantivano una voce politica.
A cavallo del Novecento e negli anni edwardiani si crea per la prima volta un anello di congiunzione tra la corona e i membri del parlamento, ai quali ci si appoggia per iniziare delle riforme, senza dimenticare poi il rapporto tra Disraeli e Queen Victoria.
E in Europa?
In Europa è diverso perché queste abitazioni non hanno lo stesso significato politico dell’Inghilterra. Ci sono prospettive diverse che emergono dallo studio. Per esempio, in Francia è più che altro un bene simbolico. In quel caso si acquistavano castelli e si formavano collezioni, un modo di assimilarsi e condividere certe abitudini e modi culturali, ma sempre in modo originale e con delle peculiarità.
In Italia penso all’abitazione dei Morpurgo a Trieste o a Villa Montesca, vicino a Città di Castello, dove il barone Franchetti invitò Maria Montessori a trascorrere un periodo e perfezionare il suo metodo.
Cosa ci permette di identificarle come “ebraiche”, oltre alle famiglie che vi hanno abitato?
Le Country Houses hanno una storia settecentesca molto forte legata a personaggi che hanno creato questi luoghi come Horace Walpole che di Strawberry Hill ne ha fatto il simbolo del neogotico inglese. In questo caso c’è una fase ebraica in cui Lady Waldegrave, figlia di John Braham, ha fatto tantissimo per la casa: l’ha restaurata e mantenuta. È grazie a lei che, forse, abbiamo il monumento in piedi e che parte della collezione sia stata preservata. Lady Waldegrave cercava di ricomprare oggetti e in qualche modo celebrarne l’origine e la tradizione.
Dal punto di vista del gusto, queste famiglie erano eminentemente cosmopolite e paneuropee, come gli Stern a Strawberry Hill che vissero nella villa dopo Lady Waldegrave.
Le famiglie inglesi tradizionali hanno delle collezioni legate al Grand Tour e a una cultura nazionale, con delle categorie ben chiare. Invece la peculiarità di queste famiglie ebraiche, per esempio, è stata quella di aver patrocinano le avanguardie. Rispetto ai collezionisti ebrei e l’archeologia il loro grande contributo fu quello di ampliare lo spettro di civiltà di cui collezionare le importanti reliquie con un grande interesse per l’Oriente.
Ci sono degli esempi creati ex novo da famiglie ebraiche?
Un classico esempio è Waddesdon Manor costruito da Ferdinand de Rothschild, che tra l’altro fece un lascito al British Museum, con una collezione in cui all’interno troviamo l’idea di wunderkammer. Gli inglesi non hanno mai avuto la wunderkammer che è un concetto che viene sviluppato più che altro nell’Ottocento da collezionisti che provenivano da contesti europei. Ferdinand de Rothschild fa costruire la sua Country House con lo stile francese: un Castello della Loira trapiantato nella campagna inglese, con dentro pezzi di gusto, delle visioni, che sono frutto di questa apertura, che contraddistingue l’élite ebraica, a simboleggiare le proprie radici e la propria cultura.
A settembre avete previsto un workshop, in collaborazione con la Gilbert Collection del Victoria and Albert Museum, sui dealers ebrei e il mercato dell’arte. Quali sono le figure più rappresentative?
Un caso importante è quello dei Duveen. In passato sono stati pubblicati molti contributi, anche con qualche luogo comune, sulla vendita di opere dall’Inghilterra all’America, ma pochi ne hanno parlato nell’ottica della filantropia culturale. Grazie a loro, per esempio, che è stata realizzata al British Museum la stanza dei marmi Elgin (con le sculture del Partenone n. d. r.), e contribuito alla costruzione di svariate sale e all’allestimento della National Gallery.
Il vantaggio di questi mercanti è di operare in diverse capitali, rispecchiando la storia di queste famiglie sparse in Europa, con network estremamente dinamici, più dei mercanti che erano solo basati a Londra o che avevano una sola sede.
Quindi, le storie personali sono un elemento fondamentale in fase di ricerca…
Bisogna indossare le lenti della storia delle famiglie per comprendere quello che si vede. Si parte da un luogo e una comunità per arrivare in un altro luogo: chi ha entrambi gli elementi ha una visione più globale. La parte centrale sono le relazioni e l’idea di network è importante al fine di comprendere e contestualizzare meglio queste realtà. Attraverso una contestualizzazione più approfondita e comprensiva, che non è limita solo al luogo, si aggiungono aspetti che contribuiscono a dare una visione più corretta.