Anche senza contare i quartieri di Gerusalemme, oggi ci sono almeno seicentomila israeliani che vivono oltre le linee armistiziali del 1949 in Giudea e Samaria, cioè in quella zona, che ha la dimensione della metà dell’Abruzzo, che spesso viene definita con un nome inventato “Cisgiordania”. I media e buona parte dei politici internazionali si ostinano a chiamarli “coloni”, richiamando ricordi ottocenteschi di sfruttamento di popolazioni asiatiche e africane da parte delle potenze europee. Ma la situazione è del tutto diversa, perché la nazione ebraica proviene proprio da queste terre e vi è stata sovrana per oltre un millennio, prima di essere espulsa con la forza. E poi perché gli abitanti ebrei di queste zone non vivono affatto sfruttando gli altri, semmai li arricchiscono con la loro industriosità; né si sono impadroniti di materie prime che qui mancano.
I “coloni” comunque sono la categoria di israeliani più diffamata dai media, anche peggio dei charedim (quelli che vengono chiamati di solito “ultraortodossi”) con cui essi sono anche impropriamente confusi. Essi sarebbero il principale ostacolo alla pace, il nemico implacabile degli arabi, violenti, visionari, “messianici”, magari “fascisti” – così ci viene detto ogni volta che se ne parla. Vengono boicottati; si cerca di impedire che i loro prodotti, per esempio l’ottimo vino che producono, sia marchiato come israeliano; le loro istituzioni universitarie e di ricerca, per esempio la buona università di Ariel frequentata anche da parecchi arabi, sono oggetto di boicottaggio accademico. Ma nessun giornalista internazionale, a mia memoria, si è sforzato onestamente di capire chi sono e che cosa pensano.
L’ha fatto finalmente in un libro un giornalista italiano esperto di Medio Oriente, Pietro Frenquellucci, già all’Ansa e al Messaggero. Frenquellucci condivide alcune delle opinioni critiche contro gli abitanti delle comunità insediate oltre la linea armistiziale, tant’è vero che ha intitolato il suo libro Coloni (LEG Edizioni, Gorizia), pur aggiungendoci un sottotitolo positivo: “gli uomini e le donne che stanno cambiando Israele e cambieranno il Medio Oriente”. Spesso nel corpo del libro avanza l’obiezione che l’esistenza di ebrei oltre la linea armistiaziale sia il principale ostacolo alla pace. Ma fa una cosa semplice e importante, un lavoro giornalistico vero che mancava: dà voce a queste persone, li ascolta e riporta onestamente la loro posizione. Il libro si compone di una dozzina di lunghe interviste, riportate a racconto, cioè senza le domande, più due interviste finali vere e proprie, in cui parlano due fra gli israeliani di origine italiana più noti, l’ex vice sindaco di Gerusalemme, David Cassuto e il demografo dell’Università ebraica di Gerusalemme, Sergio Della Pergola, sentiti come esperti.
Più che dalle loro opinioni, certamente utili, il libro trae interesse dalle testimonianze di persone come Fabio Anav, che abita a Shekev; Jonathan Segal, a Neve Daniel; Noam Arnon, portavoce della Comunità di Hebron; Elyakim Haetzni, che l’ha fondata e ora sta nella collina accanto, a Kiryat Arba; Annalia Della Rocca, che abita a Bet El; Ariel Viterbo a Alon Shvut e diversi altri ancora. Non solo tanto discussioni geopolitiche o storiche, ma racconti di vita: l’immigrazione in Israele, l’insediamento da qualche parte nelle città e nei villaggi, la scelta di venire in Giudea e Samaria, talvolta la difficile fondazione delle nuove comunità, il lento passaggio dalle prime baracche alle cittadine ben costruite d’oggi, le regole di funzionamento delle comunità, i rapporti personali e collettivi con i vicini arabi, gli ostacoli che la politica e il pregiudizio internazionale pongono alla vita e allo sviluppo economico dei villaggi, le regioni ideali, religiose, politiche o pratiche che hanno guidato la scelta di questo insediamento, l’amore per la terra e la sua bellezza.
Da tutte queste storie, spesso molto belle e partecipate, sempre espresse con grande onestà, senza paura di dar fastidio o essere posti all’indice, esce un quadro interessante e frastagliato. Il primo dato, che non è una sorpresa per chi conosce almeno un po’ Israele ma per molti altri lo sarà, è che non c’è un “movimento dei coloni”, unitario e compatto. Le esperienze sono molto differenziate, c’è chi per spiegare le proprie scelte apre le Scritture e cita i viaggi di Abramo o le battaglie dei Giudici, e chi semplicemente parla del costo della vita e del prezzo delle case o della possibilità di vivere meglio che in città; chi parla della storia del Novecento, dei pogrom di Hebron o delle ripetute distruzioni subite da chi si era insediato già sotto gli inglesi al Gush Etzion, e chi indica ragioni strategiche, il bisogno di difendere il paese. La seconda cosa che emerge con chiarezza è che nessuna di queste persone è fanatica, millenarista o “messianica”, che nessuno è nemico degli arabi in quanto tali o tanto meno razzista, che l’atteggiamento è in genere dialogico, lucido, colto e maturo. La terza cosa è la rivendicazione di una continuità con il periodo di fondazione dello stato di Israele, l’insediamento (Yishuv) che durò per la prima metà del Novecento: la stessa volontà di intraprendere, di radicarsi, di essere utili, di risolvere i problemi con le proprie mani, di affrontare i sacrifici necessari per stare sulla terra che sia ama. L’ultimo dato rilevante è l’idea diffusa che gli insediamenti siano lì per restare. Se il governo di Israele decidesse di smantellarli molti accetterebbero l’ordine, altri proverebbero a resistere. Ma nessuno crede che sia possibile, nel medio termine, un accordo con l’Autorità Palestinese che comportasse il loro sradicamento, perché ciò sarebbe, nell’opinione generale, non la fine di questi villaggi, ma la resa di Israele a chi lo vuole distruggere.