Pubblichiamo di seguito alcuni estratti del contributo del Direttore del Museo Ebraico di Roma Olga Melasecchi tratto dal catalogo “Antiche Mappòt romane”. Il prezioso archivio tessile del Museo Ebraico di Roma”, pubblicato nel 2016.
L’istituzione del ghetto romano nel 1555, com’è noto, limitò molti privilegi che erano stati concessi agli ebrei nei secoli precedenti. Tra i numerosi e insopportabili obblighi e divieti era la proibizione di possedere beni immobili, gioielli, abiti sfarzosi, carrozze: veniva in tal modo vietata qualsiasi manifestazione di status sociale che non fosse quello di appartenenza alla comunità religiosa, imponendo anche l’obbligo di portare un segno distintivo. La volontà di livellare questa parte della popolazione romana era stata poi acuita dal divieto di iscriversi a corporazioni di arti e mestieri, limitando perciò la possibilità di esercitare professioni che non fossero le uniche due permesse: il prestito di denaro e la mercanzia. Professioni che, nonostante tutto, permettevano una certa agiatezza, che tuttavia non poteva essere appunto esibita. E dunque all’interno del ‘serraglio’, come evidenziato anche da Serena Di Nepi in questo stesso volume, convivevano famiglie facoltose con famiglie estremamente povere: nel 1668, ad esempio, su circa ottocento famiglie presenti nel ghetto, almeno duecento erano benestanti. Stratificazione sociale che perdurò per tutto il periodo dell’esistenza del ghetto, e che, come ha evidenziato uno studio recente, determinava anche la qualità abitativa delle singole famiglie nel suo interno: la Via Rua, più interna e quindi più lontana dal Tevere e dalle sue inondazioni, era abitata dalle famiglie più facoltose, o perlomeno dai componenti più ricchi di una medesima famiglia.
Questa situazione era già esistente all’interno della popolazione ebraica romana ancor prima della chiusura del ghetto, accentuata dall’arrivo degli ebrei sefarditi dopo la loro espulsione dalla penisola iberica nel 1492 «Nella prima lista tramandata dei venti banchi ebraici autorizzati dalla Santa Sede», ha scritto Anna Esposito, «più della metà era costituita da ebrei spagnoli, un altro buon terzo da ebrei provenienti all’Italia Meridionale e dalla Provenza e solo una minoranza era rappresentata da ebrei romani. Si viene quindi gradatamente determinando una stratificazione sociale sempre più netta all’interno della Comunità Ebraica di Roma, che vedeva ormai in posizione eminente i prestatori, quindi gli operatori dell’artigianato e del piccolo commercio e infine tutte le persone di mediocre livello. Questa stratificazione aveva peraltro un preciso risvolto ‘etnico’, perché a capo della piramide sociale (rappresentata dai banchieri) vi erano soprattutto elementi ultramontani e in particolare sefarditi, che si trovavano a dominare economicamente il vecchio gruppo romano e italiano, verso il quale mostravano uno sprezzante senso di superiorità, acuito, anziché mortificato, dall’esilio».
In effetti, le famiglie riconosciute ed elencate da Attilio Milano come le più facoltose, tra il 1682 e il 1791, cioè le famiglie di Leone Ambron, di Samuele Ascarelli, di Jacob Baraffael, di Angelo Castelnuovo, di Shabat Del Monte, di Michele Di Capua, di Tranquillo Di Segni, di Donato Di Modena, di Leone Serena e di Tranquillo Volterra, sono famiglie di ebrei non romani (a parte quella dei Serena, o Sereni, appartenenti alla Scola Tempio, la scola delle famiglie ebraiche abitanti a Roma da prima dell’arrivo degli spagnoli). E questi sono gli stessi nomi che ritroviamo più frequentemente nelle iscrizioni ricamate sui più importanti tessuti cerimoniali donati alle sinagoghe di appartenenza. Da queste iscrizioni dedicatorie, che costituiscono un vero e proprio archivio tessile, e dal loro riscontro con gli inventari delle antiche Cinque Scole, e con quelli del Tempio Maggiore, del 1904 e del 1942, sappiamo da chi, quando e perché venivano donati alle Scole i Sifrè Torà adornati da vesti e finimenti d’argento così preziosi. Il legame con la Scola era molto forte, soprattutto perché rappresentava l’elemento unificatore e identificativo dei singoli appartenenti alla comunità ebraica:«Se la maggior parte degli ebrei romani non disponeva di una casa degna di essere decorata e arredata con ricchezza», ha scritto Daniela Di Castro, «i veri centri della vita ebraica erano piuttosto le cinque sinagoghe. Gli ebrei dimostravano nei loro riguardi un attaccamento e una familiarità del tutto particolari. Funzionavano come centri di preghiera (tre volte al giorno), di istruzione e di riunione, ed era logico che divenissero anche le destinatarie di tutto ciò di cui gli ebrei avrebbero amato circondarsi».
La selezione degli estratti del testo è a cura di Michelle Zarfati