Ci ha lasciato ieri, all’età di 76 anni, Christian Boltanski, tra i maggiori artisti contemporanei che l’Europa abbia saputo darci dopo la seconda guerra mondiale.
Nato a Parigi nel 1944 da padre ebreo di origine ucraina e madre di origine corsa, Boltanski apparteneva alla generazione dei figli della shoah, ovvero coloro che hanno vissuto la guerra e i traumi della persecuzione attraverso il racconto dei genitori. Sebbene l’artista sia stato sempre riluttante nell’essere etichettato come “l’artista della shoah”, il suo legame con questa è innegabile come viene dimostrato già dalla fine degli anni Ottanta, in occasione della mostra Lessons of Darkness presso il Museum of Contemporary Art di Chicago, in cui venne rilevato dai critici americani il primo legame esplicito fra la sua opera e lo sterminio ebraico. È anche vero però che l’oggetto del lavoro artistico di Boltanski è sempre rimasto un senso di perdita più generale come si evince dalle sue fotografie sgranate e sfuocate di volti, gli abiti usati appesi come sindoni e gli effetti personali che si accumulano in “reliquiari” evocando individui scomparsi e la fine della loro esistenza. In ogni caso il fatto di venire alla luce in una Francia ancora in guerra ebbe senz’altro un notevole impatto sul suo percorso di vita e poi artistico.
Tra le numerose installazioni realizzate dall’artista per musei e gallerie nel corso dei decenni, va ricordata Monuments, una serie molto complessa di sculture che Boltanski ha iniziato a compiere nel 1985 utilizzando e manipolando immagini del passato. Di questa serie fa parte Autel Lycée Chases, una specie di “altare” dalla forma piramidale costituita da otto fotografie in bianco e nero di giovani studenti ebrei i del liceo di Vienna nel 1931. Anche in questo caso le immagini affiorano da un passato remoto, quasi evocati attraverso una memoria labile e discontinua che non ci permette di mettere a fuoco quei volti. Il senso di incertezza che ne consegue è accresciuto dall’illuminazione debole delle lampadine che rendono l’atmosfera sospesa tra la vita e la morte. L’installazione diventa così un luogo di culto, di preghiera, ma è anche un omaggio, un atto per non dimenticare le vittime innocenti dei campi di concentramento seppur non ci siano riferimenti diretti alla shoah, cercando di strappare quei volti senza nome all’oblio e di integrarli nella nostra memoria collettiva dando loro un monumento elevato a luogo sacrale oltre che di riflessione.
(Christian Boltanski, Reliquaire,1990)
Nel 2011 Boltanski ha rappresentato il padiglione Francia alla 54. Biennale di Venezia con l’installazione Chance, laddove ancora una volta l’artista aveva voluto trasmetterci un’idea drammatica di Destino, questa volta però focalizzato sulla vita e sulla nascita. La grande installazione che riempiva tutto lo spazio del padiglione era composta da un nastro mobile in cui scorrevano 600 volti di neonati mentre un grande contatore numerico scandiva le nascite e le morti nel mondo. In questo contesto il visitatore aveva la possibilità di interagire e partecipare all’opera premendo un bottone per fermare i particolari dei volti divisi in tre sezioni differenti.
Per concludere, il lavoro di Christian Boltanski è stato senz’altro fondamentale in un momento storico in cui la percezione e la consapevolezza della fugacità umana, così come del ricordo e della memoria, personale e collettiva, hanno forgiato la generazione postguerra, colpite indirettamente dai traumi che questa ha comportato. L’artista stesso in un’intervista ha spiegato il trauma che subì da bambino e cercò di superare durante la sua vita, il trauma di ascoltare in tenera età le storie dei sopravvissuti alla shoah. “Mi sentivo un bambino legato alla shoah piuttosto che all’ebraismo. Avevo sentito moltissimi racconti di sopravvissuti e anche mio padre era un sopravvissuto. Del resto, in casa c’era ancora il suo nascondiglio, e la mia famiglia era segnata da un’angoscia molto forte”. E se l’ebraismo, a suo dire, non abbia condizionato il suo percorso, l’idea del Male e l’idea del Caso, espressioni e materie concrete della sua ricerca atta ad indagare il fragile e instabile passaggio dell’uomo, lo hanno influenzato tanto da farlo diventare il grande artista che noi tutti consociamo ed oggi ricordiamo.
(Christian Boltansky, chance, 2011. Biennale di Venezia, Padiglione francese)