Una sequenza ordinata di immagini dalle dimensioni di una cartolina, un formato che nelle intenzioni dell’artista potrebbe essere facilmente trasportabile e utilizzabile per appuntare memorie e suggestioni. È così che si presenta il progetto espositivo “The Zionist Phantom” di Dana Arieli, curato da Ermanno Tedeschi e nato dalla collaborazione tra l’Associazione Culturale Acribia e l’Ufficio Culturale dell’Ambasciata di Israele in Italia. La mostra che rientra nell’ambito di TIME SPACE EXISTENCE, evento collaterale della Biennale di Architettura organizzato dall’ECC European Cultural Centre, è ospitata a Palazzo Bembo di Venezia fino al 21 novembre.
“Phantom”, apparizione spettrale, è una parola chiave nel lessico della fotografa ed è documentata attraverso i segni lasciati dal tempo in alcuni luoghi, simbolo degli ideali sionisti, disseminati in varie città israeliane. Sono dettagli di architetture, strade e monumenti che sembrano essere la testimonianza di siti dimenticati, dove la presenza della figura umana è sporadica o casuale perché entrata nell’obiettivo della fotografa. Queste immagini sono invece parte della storia recente di Israele, della sua costruzione identitaria civile, politica e culturale dal 1948 in poi. Negli ultimi dieci anni Dana Arieli ha fotografato molti spazi: dal monumento nel Negev, realizzato da Dani Karavan negli anni ’60, a ricordo della brigata israeliana che combatté la coalizione araba che aveva dichiarato guerra all’appena nato stato d’Israele, all’accumulo di vecchie macchine da scrivere al “Madetech” -Museo della scienza e della tecnologia- di Haifa.
«Sono sempre sorpresa dal numero di luoghi abbandonati in Israele: è un paese molto piccolo con molti “Phantoms”» racconta Dana, ricordando come a partire da uno studio preventivo sulla storia -Arieli insegna alla Facoltà di Design del Holon Institute of Technology- riesca poi a documentarne vari aspetti: «il mio lavoro si occupa di mostrare le varie soluzioni adottate in luoghi che hanno attraversato guerre, conflitti e disaccordi» considerando come spesso la perdita di rilevanza sia dovuta ai cambiamenti nella società.
Più che una denuncia sull’abbandono di architetture, questi scatti sono una raccolta di memorie che attraverso questa operazione vengono riattivate. Chi osserva è chiamato a interagire grazie anche un progetto on line dove i visitatori di un sito dedicato possono lasciare un commento, una testimonianza sul proprio vissuto che saranno poi selezionati per una pubblicazione.
Questo consente di aumentare i livelli di lettura dell’immagine con soluzioni a cui la stessa fotografa non aveva immaginato: «ci sono diversi modi in cui le persone reagiscono a un’immagine, in molti casi vedono cose che non ho visto quando ho scattato la foto. Quindi sicuramente le varie posizioni degli spettatori aggiungono molto al mio progetto».
Eppure, quello che sembra un processo irreversibile, di abbandono e apparente disinteresse lascia spazio alla speranza di una memoria che non è cancellata, ma che spesso viene recuperata. Dana Arieli è molte volte sorpresa di tornare in alcuni luoghi che sembravano “perduti” che «al momento del mio passaggio mi sono sembrati “Phantoms”, ma visitati dopo 5 anni sono stati ristrutturati» e che tornano di nuovo vivi.