Marco Bellocchio è tra i registi italiani ormai di casa a Cannes. Solo l’anno scorso era sulla montée des marches con il suo “Esterno notte” e nel ‘74 il festival lo premiava con la Palma d’oro d’onore alla carriera.
Il suo poteva sembrare un progetto ambizioso, dal punto di vista cinematografico, visto che era stato Spielberg, per primo, a pensare di occuparsi del caso Mortara.
Può darsi, ma Bellocchio, arrivato ieri in concorso al festival francese, ha realizzato un bel film. “Rapito” è una pagina nera della storia italiana che porta il marchio della prepotenza del potere assoluto, tema caro al regista, e dell’antisemitismo.
Ispirato liberamente al testo di Daniele Scalise, ricostruisce tutti i passaggi del sequestro del piccolo Edgardo.
Siamo a Bologna, nel 1858. Edgardo aveva sei anni quando nella sua casa irruppero le guardie papali per strapparlo alla famiglia. Una domestica aveva rivelato all’inquisitore che anni prima, credendolo in fin di vita, lo aveva battezzato segretamente. Da quel momento scattava dunque la legge del Papa re: Il piccolo doveva ricevere una educazione cattolica, non poteva più restare sotto il tetto dei parenti di religione ebraica. Fu portato a Roma, all’insaputa di padre e madre, e inserito nel collegio dei catecumeni. Papa Pio IX seguì personalmente i progressi del suo percorso di indottrinamento.
Tra i protagonisti Filippo Timi e Fabrizio Gifuni.
La prospettiva, con cui Bellocchio guarda il misfatto, è quella di una famiglia distrutta dal dolore, attonita, che cerca di ribellarsi alla violenza del pregiudizio e dell’incontrastabile potere del Papa sovrano. Una famiglia con cui è inevitabile sentirsi alleati nella sete di giustizia e nella rabbia per l’offesa della negazione di un diritto.
Ma è soprattutto interessante entrare, per quanto possibile, nella logica delle segrete stanze dell’epoca, nelle motivazioni apparentemente religiose, e soprattutto politiche con cui il Papa rifiutò ogni possibile trattativa per riportare a casa Edgardo. Il pregiudizio antiebraico, ci spiega insomma Bellocchio, fu l’arma fondamentale inforcata da un monarca al suo tramonto.
È cocente l’umiliazione, che il film sa trasmettere benissimo e in poche scene, a cui la comunità ebraica romana viene sottoposta durante un incontro di intercessione. Il Papa re rimane insensibile ad ogni appello internazionale, dell’opinione pubblica e politico. Ad ogni possibile conseguenza economica del suo gesto.
Tra logiche di pretesa necessità religiosa e di affermazione di potere si sviluppa la figura di un’autorità che cerca di resistere al suo crollo. Siamo infatti agli ultimi sgoccioli dell’epoca del potere temporale.
E seppure in tono minore nella narrazione, compare l’episodio della breccia di Porta Pia, comprendiamo come fu il Risorgimento a infliggere il colpo definitivo a quello stato di cose.
Edgardo intanto era cresciuto.
Ormai da tempo lontano da casa aveva forzosamente cercato nuove sicurezze. E lo vediamo dopo che lentamente ma inevitabilmente ha ceduto ad una influenza, racconta il regista, che lo indusse persino a ritenere i genitori responsabili di quella separazione.
Nel film “Rapito” Marco Bellocchio sa portare sullo schermo un dolore senza quartiere e una arroganza senza confini.
Quell’evento fu probabilmente fondamentale nel percorso verso la secolarizzazione dello stato e la libertà e uguaglianza di religione.
Ma ha lasciato comunque il segno di una frattura storica, di un gesto ottuso e impietoso, di una famiglia straziata. Di un figlio e i suoi genitori costretti a rinnegarsi l’un l’altro.
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