Sessant’anni fa, l’11 aprile 1961, si apriva a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann, un atto di giustizia che ha avuto enormi conseguenze sulla coscienza collettiva della Shoà. Eichmann, tenente colonnello della SS, era stato forse il più importante ed efficace organizzatore del genocidio degli ebrei d’Europa. Era stato fra i promotori e i coordinatori della conferenza di Wannsee del 1942 in cui fu organizzata concretamente “la soluzione finale del problema ebraico”, ma già prima era stato il responsabile della spoliazione e della deportazione degli ebrei a Vienna, poi fu l’organizzatore della gigantesca macchina logistica che portò alla morte nei campi di concentramento milioni di ebrei da tutt’Europa, lavorò sui trasporti ferroviari che alimentavano i Lager, da ultimo si occupò da vicino della distruzione degli ebrei d’Ungheria, l’ultima grande deportazione della Shoà. Insomma fu un elemento decisivo della macchina di morte nazista. Dopo la sconfitta del nazismo, si nascose a lungo in Germania e anche in Italia, godendo di complicità importanti. Con documenti falsi rilasciatigli in Alto Adige, dunque con la copertura della gerarchia cattolica, si rifugiò nel 1950 in Argentina. Scoperto per caso, nel 1960 il Mossad organizzò una complessa e ben nota operazione per prelevarlo e portarlo in Israele. Nonostante le proteste ufficiali dell’Argentina e un appello per trasferirlo in Germania, Ben Gurion resistette a tutte le pressioni e decise di sottoporlo alla giustizia israeliana. Processato in primo grado e in appello dai giudici di Gerusalemme, fu condannato a morte. La sentenza fu eseguita il 31 maggio 1962.
Del processo ad Eichmann abbiamo parlato con Bettina Stangneth, filosofa tedesca e autrice del libro più importante e innovativo degli ultimi anni sul tema “La verità del male – Eichmann prima di Gerusalemme”, pubblicato in Italiano da LUISS University Press nel 2017. Fin dal titolo il libro critica la celebre tesi di Hannah Arendt per cui Eichmann rappresentava solo “la banalità del male”, l’obbedienza burocratica “senza pensiero” e dunque il processo non aveva senso.
Bettina Stangneth, lei ha studiato a fondo le carte del processo e i materiali di Eichmann in Argentina. Qual è il suo giudizio sul processo?
“La prima cosa da dire è che è stato un processo equo, estremamente corretto. Eichmann ha avuto a sua disposizione tutti i mezzi legali per difendersi, i documenti, la possibilità di interloquire e discutere, la consulenza legale che voleva. Eichmann stesso ne fu molto sorpreso e se ne avvalse fino in fondo.”
In che senso?
“Ha trasformato il processo in una guerra. Contava di vincerla e tornare in Germania libero. Bisogna dire che era molto preparato, conosceva i documenti, i libri, i fatti, i nomi, le date. Si era attrezzato per il processo già in Argentina, anche se allora immaginava di poter fare la sua battaglia in Germania. A Gerusalemme, processato dai suoi nemici ebrei, credeva di poter vincere lo stesso, col suo caratteristico senso di superiorità razzista. Pensava di poter manovrare gli ebrei sulla base della sua supremazia innata, e credeva di capirli meglio di come si capivano loro stessi: tentò tutti i trucchi per riuscirci.”
Quali trucchi?
“Bisogna capire che per la mentalità nazista l’idea di una ragione universale, di un’etica valida per tutti, è una trappola che indebolisce, impedisce il dominio. E da un certo punto ha anche ragione: a chi ha capito che le regole morali impongono il rispetto della vita, è più difficile compiere delle stragi. Dal punto di vista nazista, questa è una debolezza. Quest’idea dell’etica universale per i nazisti era ebraica. Eichmann cercò di sfruttarla, di usare lo ‘spirito ebraico’ contro gli ebrei, atteggiandosi come se vi aderisse. Si diede l’aria di una specie di filosofo, si mise a sostenere la legittimità morale del suo comportamento. In una delle sessioni del processo accadde una scena incredibile: Eichmann si mise a discutere dell’etica di Kant con un giudice. Se lo può immaginare? Un assassino di massa che parla di filosofia coi suoi giudici… Contava con ciò di far dimenticare chi era stato davvero.”
E ci è riuscito?
“Alla fine no, è stato giustamente condannato. Ma ha avuto qualche successo. È riuscito a impersonare una maschera completamente diversa da quell’assassino che era. Ho studiato le corrispondenze dei giornalisti che erano là: tutti sono sorpresi che un ometto così innocuo, così poco interessante, con gli occhiali, “un impiegato” che parla in maniera rispettosa e competente fosse un pericoloso genocida.”
Com’è possibile?
“Se uno è stupido, gli è difficile sembrare intelligente. Ma se è intelligente, se sa come funziona la psicologia della gente, è facile farsi credere stupido. Può mostrare atteggiamenti e pronunciare parole ben studiate per suscitare interpretazioni sbagliate. Se si aspettano che menta continuamente e invece insiste a rettificare i particolari, a puntualizzare dettagli veri, a dare fatti e numeri, finiranno col credergli, penseranno che è stupido, innocuo, che non capisce dove sta, che è indifeso…”
Anche Hannah Arendt si lasciò convincere dalla sua sceneggiata…
“Sì anche la Arendt non capì, si fece prendere nella sua trappola, credette davvero che fosse un innocuo burocrate che obbediva e “non pensava”. Come molti altri giornalisti, del resto. Ma c’è qualcosa in più. Arendt era una filosofa, cioè una donna capace di pensare in maniera profonda e originale. Condivideva l’illusione dell’illuminismo che il pensiero, la ricerca della verità, sia incompatibile col male. Ma non è così, il nazismo ce l’ha mostrato, esiste un pensiero del male. Ci sono malvagi che sanno pensare, anche filosofi del male, come Heidegger. Eichmann pensava, era lucidissimo, astuto, ben preparato, colto, capace di prevedere le reazioni dei suoi nemici.”
Qual è stato il risultato del processo Eichmann? È stato opportuno farlo?
“Sì, è stato giusto. Bisognava farlo. Ci furono due risultati immediati. Il primo fu la documentazione. Ancora oggi si possono vedere i fascicoli del processo, l’immensa documentazione raccolta. È l’inizio di una ricerca sistematica sui crimini del nazismo che non era stata compiuta prima d’allora. Si parlava di crimini del nazismo, ovviamente, ma il genocidio degli ebrei era solo un dettaglio. Il secondo risultato è stato il dibattito che è iniziato proprio per merito di Hannah Arendt. Dal punto di vista storico Arendt ha fatto molti errori, che io ho documentato nel mio libro, ha sbagliato soprattutto il suo giudizio su Eichmann, sottovalutandone lo spessore criminale. Ma ha avuto il merito immenso di sollevare un dibattito sul nazismo, sul rapporto con la storia tedesca, sull’antisemitismo che non si è più fermato. Pensi che prima del processo Eichmann ci saranno stati al massimo quindici libri su questi temi. Quasi non se ne parlava.”
Anche in Italia il libro di Primo Levi, rifiutato da Einaudi nel ‘47 e pubblicato da un piccolo editore, conobbe il successo solo dopo il processo.
“Fu stesso in Francia, in Germania, dappertutto. Si può dire che lo studio vero del nazismo e della Shoà inizia dopo il processo.”
Perché è importante continuare a parlare di queste cose?
“Per la memoria, naturalmente. Ma non solo per questo. Bisogna pensare che per compiere i grandi crimini della storia le persone davvero convinte, i fanatici, non bastano. C’è bisogno degli aiutanti, i quali devono collaborare perché il disegno criminale si realizzi. È a loro che bisogna parlare, che bisogna mostrare che cos’è il male, dove porta il pensiero della violenza, che secondo me è la più pericolosa di tutte le armi degli uomini. Senza i seguaci i fanatici sono disarmati. E se il pensiero della violenza è smascherato, i seguaci non arrivano. È questo il compito che abbiamo, ancora oggi.”