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    Cultura

    “Zwei Menschen. Il ponte”: in una graphic novel il racconto di Susanne Ruth Raweh e Isabel Grube

    “Zwei Menschen. Il ponte” è il titolo della graphic novel realizzata da Max Cambellotti a partire dalla testimonianza di Susanne Ruth Raweh e Isabel Grubee presentata all’Associazione Camis de Fonseca di Torino. “Zwei Menschen” significa “due uomini” e in yiddish “due uomini buoni, giusti”, come sono i protagonisti della storia di cui si narra nel libro uscito lo scorso dicembre per i tipi dell’editrice Voglino. Durante la II guerra mondiale un comandante tedesco in veste di carnefice e un medico ebreo in veste di vittima si incontrano, si scoprono gentiluomini, diventano complici in vicissitudini inumane e assurde e affrontano pericoli mortali senza mai tradire e tradirsi. Sulle basi solide dell’incontro tra quei due protagonisti del passato si intreccia oggi un’amicizia tra Isabel Grube, nipote del comandante Alfred, che si è a lungo interrogata sull’operato di quel nonno che non ha mai conosciuto, e Susanne Ruth, Susie, figlia sopravvissuta alla Shoah del medico ebreo: insieme potranno ricostruire un nuovo ponte di dialogo, di fiducia e di amicizia.

    Susie è una docente universitaria e psicoterapeuta, nata a Bucarest, da mamma polacca e papà moldavo, vive tra Tel Aviv e Torino. “Sapete della guerra che c’è stata ottant’anni fa in Europa e di quello che hanno fatto i nazisti?”, inizia cosi l’incontro della ‘nonna bambina’ con i giovani che affollano le aule per ascoltarla. Rastrellata dalle SS a quattro anni assieme alla famiglia dalla città multietnica e colta di Tchernowitz, raggiunge ammassata con altri ebrei dell’Europa centrale la Transnistria dopo un estenuante viaggio in vagoni merci. Erano i mesi in cui i prigionieri ebrei dovevano costruire le strade per permettere alla Wehrmacht di avanzare alla conquista dell’Unione Sovietica. “Noi riviviamo le esperienze vissute – spiega Susie – non possiamo immaginare un’altra esistenza”. E la sua vita è cominciata quando è stata catturata dai nazisti, i suoi ricordi fluiscono da quel momento. “Nella prigionia, quella era la mia vita, non ne esisteva un’altra. Ho capito in seguito ciò che mi era successo”. Fino a quarantasei anni non è riuscita a descrivere i suoi ricordi, un groppo in gola “che non potevo né sputare né ingoiare” glielo ha impedito. Ora può parlare, ha rielaborato la sua esperienza, ha compreso di avere una missione: tramandare il male alle nuove generazioni. Il suo libro “La storia della nonna bambina”, tradotto dall’ebraico nel 2014, è nato per raccontare la sua storia ai cinque nipoti; oggi come fossero tanti nipoti, con la familiarità di una nonna, Susie parla ai bambini che attenti la ascoltano e le chiedono spiegare la sua paura, la fame e gli stenti, come i deportati venissero chiamati con il numero che era stato loro tatuato sul braccio, i forni crematori.
    Max, che disegna per passione e non per mestiere, ricorda l’esordio quasi casuale della collaborazione: “Durante una cena Susie mi ha detto: ‘Max, visto che tu disegni, ti andrebbe di fare una graphic novel sulla mia esperienza?”. E io, senza neanche pensarci sopra, ho detto ‘ma sì, certo, come no…’. Dopo qualche mese, ho ricevuto una chiavetta usb da Tel Aviv, dove lei nel frattempo si era trasferita, in cui c’era la testimonianza del padre, resa allo Yad Vashem di Gerusalemme. C’erano anche delle foto, scattate in vari momenti, e le parole di molti dei dialoghi che ho poi inserito nel fumetto: io non ho dovuto inventare quasi niente, anche se il filo della memoria su questi avvenimenti è molto esile, è tutto basato sulla testimonianza resa dal dottor Zaharia Sieperstein”.
    “Un domani, quando gli ultimi sopravvissuti non ci saranno più, ripete Susie al suo giovane pubblico, potrete dire ai vostri figli e nipoti di aver visto e ascoltato una di loro. La mia storia è una piccola storia in una grande storia. Ho voluto testimoniare per lasciare un segno, perché non deve accadere mai, mai più!”.

     

    Foto: Voglino Editrice

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