Da mesi sentivo il richiamo potente, le grida che arrivavano dal profondo della terra bruciata, martoriata e intrisa di sangue innocente. Da mesi non mi davo pace, al di là delle sirene, dei tuoni dei cannoni e della vita reclusa alla mia camera blindata sul confine Nord. Mi dicevo “Che hai da lamentarti? Voi siete al sicuro, un sobbalzo ogni tanto non è nulla a confronto di una vita, di migliaia di vite recise in poche ore, senza un segno premonitore, nel giorno di Festa, nel pieno di un percorso di pace, nell’attesa di una risposta a tanti sforzi per il dialogo. Dovevo andare, per capire, guardare negli occhi di quei volti che potevano ancora vedermi e di quelli che non potevano vedere più.
E il momento è giunto: Ti invitiamo a un tour speciale ispirato al libro “L’individuo nell’insieme” al quale hai preso parte con il tuo contributo, che esplora l’esperienza dell’individuo e l’esperienza di inclusione dei diversi gruppi identitari. Durante il tour presenteremo il libro e ci concentreremo su vari casi di inclusione sociale e sui suoi effetti sull’individuo e sul collettivo. Il viaggio sarà accompagnato dai curatori del libro Dr. Orna Shemer e Dr. Manolo Topel che hanno scelto di condurre il tour nei centri abitati del Negev occidentale, lungo la Striscia di Gaza, e di presentare questioni attuali e innovative di solidarietà e inclusività che corrispondono ai temi del libro.
È stato un pellegrinaggio come quando andammo a Majdanek, a Treblinka, a Birkenau in Polonia, con lo stesso peso sul cuore. Un viaggio come sospesi su una funivia vacillante che ondeggiava di emozione in emozione. Il primo incontro a Ruchama,un kibbutz che si prepara ad accogliere un altro kibbutz – Kfar Azza – da ricostruire dalle radici, è stato un momento di ispirazione. Si dovranno creare rapporti tra vicini rispettandone l’identità, il DNA di ognuno dei due. Creare un legame all’ombra del trauma individuale e collettivo, una resilienza per sostenersi reciprocamente. Ori Levi, figlio di italiani, primi pionieri dell’Hashomer Hatzair, è il promotore di questo progetto coraggioso come rappresentante di Ruchama, insieme a uno staff di assistenti sociali. Il video che ha mostrato al pubblico dove le case per i membri di Kfar Azza sorgono in pochissimo tempo su quello che era il campo da calcio e in altre zone adiacenti ha il sapore di un miracolo e quando Idit Etinger, una dei sopravvissuti di Kfar Azza, racconta la sua esperienza del 7 ottobre dove è rimasta per 19 ore stesa a bocconi con la sua famiglia, nella stanza blindata, senza muoversi mentre intorno imperversava il male e la morte, quando dice che per non soccombere ha ripetuto centinaia di volte a se stessa tutte le gioie della sua vita e l’amore che è la sua risorsa più grande… non ho resistito più e ho sentito che il nodo alla gola che mi attanagliava dall’alba, quando siamo partiti da Sasa, si scioglieva lentamente in un fiume di lacrime. L’ho abbracciata e mi sono riempita del suo sorriso. Abbiamo proseguito per Sderot, dove accanto a ogni casa sorge un piccolo rifugio di cemento, testimonial di un Red Alert infinito che dura da anni, da quando Israele era a Gaza per impedire il lancio dei missili e da quando Israele è uscita da Gaza e di quei missili che non hanno mai smesso di arrivare sui bambini nelle scuole, nelle case, nei giardini. I bambini e i civili noi li proteggiamo in quei rifugi e sotto non ci nascondiamo arsenali di armi. A Sdeot abbiamo ascoltato le storie di giovani che hanno ricevuto le forze per affrontare il lutto insostenibile di amici caduti nella guerra, trucidati al festival, tornati in sacchi bianchi dai tunnel della morte. Per superare tanto dolore si incontrano per esprimere la paura, la nostalgia, semplicemente per piangere, sfogarsi e abbracciarsi insieme, per restare uniti e non darla vinta a chi ci vuole disperati, senza più voglia di vivere. Al Kibbutz Mefalsim abbiamo incontrato le famiglie che sono tornate nelle loro case, dopo un anno, con coraggio, con determinazione nonostante il rombo dei mortai non si sia mai interrotto. E di nuovo un attimo di speranza, fra poco anche al mio kibbutz risuoneranno le voci dei bambini, le note che si librano nelle lezioni di musica, il fischio dell’allenatore di basket.
Era già il tramonto, ma non potevamo tornare nel Nord senza fondere la nostra anima con quella dei ragazzi e le ragazze del Nova, i figli di tutto il popolo d’Israele. Non potevamo lasciare quei luoghi senza percorrere quella lunga strada dove sono stati braccati, inseguiti, violati, violentati e giustiziati senza che nessuno potesse aiutarli. E giunti nello spiazzo, quella distesa di disperazione senza fine, ho camminato in silenzio tra le immagini di quei volti. Come è possibile che fossero tutti e tutte così belle, così dolci, così solari? Come si può contenere un tale dolore? Penso alle madri, ai padri, alle notti insonni, senza risposta. Penso all’antisemitismo incalzante, alle donne che hanno volto lo sguardo altrove, a chi dice che Hitler doveva terminare la sua opera.
E mentre torniamo a casa echeggiano nel cuore, nella testa e in tutta me stessa le parole di Idit, viva per miracolo, dopo 19 ore stesa ad aspettare la salvezza che risponde alla mia domanda da dove trae la forza per ergersi di nuovo e ricominciare da capo: “Noi siamo amore Angelica, è l’amore che ci ha tenuti vivi nel corso dei secoli e questo amore non ce lo toglierà mai nessuno. Non esiste odio che possa annullare quest’amore cosi grande del popolo d’Israele!”. E con un dito leggero sul mio cuore e uno sguardo penetrante aggiunge “Non te lo far rubare mai questo amore! Da nessuno!”.