Si può siamo liberi come l’aria…..
…..Si può contestare e parlare male
…..si può fare critiche dall’esterno
……..viene la voglia un po’
anormale di inventare una morale
Utopia trrr Utopia trrr
utopia pia pia trrrr
“Si può” è una famosa canzone di Giorgio Gaber degli anni ‘70 nella quale si enfatizza un certo approccio anarchico e vorace del concetto della libertà. Sono parole molto attuali e indicative di come sembra ormai possa dirsi tutto e il contrario di tutto ignorando quei paletti e quelle distinzioni che ci aiutano a mettere a fuoco, a selezionare e ad affrontare la vita e i problemi con onestà e responsabilità. In nome di un invocato e malinteso pluralismo e di una sedicente libertà di pensiero si legittimano mistificazioni e capovolgimento dei valori, per cui non esistono più verità, ma solo post-verità manipolate e manipolabili. Si è giunti addirittura a mettere sullo stesso piano un eroe dell’antica Grecia come Ettore, che ha dato la sua stessa vita per difendere il suo popolo, e un impenitente terrorista come Yahya Sinwar che ha ucciso tante vite , tra cui quelle del suo popolo, per difendere il suo delirio di odio e la sua sete di sangue ebraico.
Negli ultimi mesi ci domandiamo con amarezza quanto sia utile continuare a spiegare le ragioni di Israele, dato che molti maître à penser, intrappolati in una visione unilaterale e distorta, sembrano ormai privi della volontà di ascoltare e di condurre un’analisi seria e onesta su una realtà complessa e articolata.
C’è però una novità sconcertante in questa nuova e virulenta ondata di antisemitismo. L’abuso spregiudicato e oramai sdoganato di temi religiosi, di alcuni insegnamenti biblici e della cultura ebraica, che vengono impiegati con superficialità da molti intellettuali, soprattutto della cosiddetta sinistra liberale, per sostenere alcune demagogiche argomentazioni. Si fanno riferimenti al libro del Levitico, ad esempio: la condanna della vendetta è interpretata in modo da riproporre pregiudizi notoriamente legati a teorie antigiudaiche, in perfetto stile “cattocomunista”, ignorando che è proprio il Levitico, soprattutto nel capitolo 19, che sottolinea invece i principi etici fondamentali dell’ebraismo, come per esempio: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, “Non vendicarti e non serbare rancore”, “Ama lo straniero” e così via, valori che l’ebraismo ha insegnato all’umanità. Ignorando tali principi, che da sempre contraddistinguono la cultura ebraica, si trasforma un testo sacro in un presunto manifesto di odio, usando con disinvoltura infelici dichiarazioni isolate di politici israeliani, come se queste rappresentassero la visione del popolo ebraico tout court. C’è un ritorno a quel consueto cliché paolino e marcioniano, ripreso ormai anche da certa sinistra che si dichiara – sempre più impropriamente – laica e progressista, che considera il “Vecchio Testamento” solo una fonte di legalismo e vendetta, superato da una nuova alleanza di amore e universalismo di cui si ritiene priva la Bibbia ebraica.
Che questi pregiudizi persistano in contesti reazionari cattolici e islamici non ci stupisce oltremodo, ma vederlo riaffermato da coloro che rappresentavano per buona parte dell’opinione pubblica il cotè intellettuale del nostro paese, incapace di andare oltre una lettura superficiale, è disarmante. Assistiamo a reiterati attacchi alla tradizione ebraica, che sembrano aderire a una “religione dell’antireligione” piuttosto che a un’analisi illuminata: un vero intellettuale laico dovrebbe, infatti, incoraggiare i lettori ad approfondire, a cercare i testi, a studiare la storia ebraica e, come per tutte le culture, a cercare maestri e punti di riferimento validi. Così facendo, aiuterebbero davvero a “scoprire” la cultura ebraica nella sua autenticità. Ancora una volta ci si appella a esempi riduttivi e stereotipati, che ritraggono il Dio ebraico come promotore di una legge del taglione (“occhio per occhio, dente per dente” – Esodo 21, 24 e Levitico 24, 17-22), ignorando che la “cultura ebraica” implica un dialogo con le fonti talmudiche, scritte dai tanto “deprecati” Farisei, che sostituiscono la vendetta con il risarcimento. Secoli prima della moderna e “civile” (?) Europa, il Talmud introduceva concetti quali il lucro cessante e il danno emergente, stabilendo il principio di proporzionalità e spostando la punizione in una sfera giuridica pubblica. Tutte le storie della Bibbia ebraica esaltano quell’amore misericordioso che caratterizza la Tradizione di Israele e di cui, ancora oggi, si ritrova traccia nell’odierno Stato ebraico, i cui ospedali si prendono cura di tante vittime del fronte opposto, e di tanti altri esempi di grande umanità che molte “anime belle e caritatevoli” preferiscono continuare a ignorare.
Si incensano esclusivamente – elevandoli come modelli esemplari del popolo ebraico – quegli ebrei “democratici” che promuovono il valore del “pluralismo” , predicato molte volte a senso unico e proprio da chi con granitiche certezze esclude a priori tutto ciò che è “diverso” da sé. Un sedicente pluralismo strumentalizzato per giustificare comportamenti irresponsabili, che finiscono per delegittimare i principi su cui si fonda la stessa sopravvivenza della Comunità.
Non è chiaro su quali basi si attribuisca questa patente di “democratico”, ma dalle loro esternazioni pare evidente che il criterio sia la volontà di dissociarsi da Israele. Come se la titolarità di “democratico illuminato” appartenesse esclusivamente a chi dimostra di scagliarsi contro Israele. Non risparmiano parole di sussiego e disprezzo verso quegli ebrei che quotidianamente interpretano proattivamente la loro cultura di minoranza e che lottano affinché ci siano sempre culture di minoranza. Una posizione semplicistica e dannosa, abbracciata anche da alcuni nostri correligionari, irretiti da questa logica manichea che vede le “anime buone”, gli ebrei secolarizzati e figli dell’Illuminismo da un lato, e dal lato opposto gli “ignoranti e bellicosi”.
Ci si lancia in solenni appelli e proclami sull’onda della manipolazione mediatica, strumentalizzati a ogni piè sospinto da opinionisti della peggior specie, trascurando la sofferenza e il rischio a cui altri membri del nostro popolo sono esposti ogni giorno, in prima linea per difendere il popolo ebraico tutto. E come se non bastasse, denunciano il timore di essere messi alla gogna, invocando alla bisogna interventi di rabbini dei cui insegnamenti nella loro vita quotidiana ignorano sfacciatamente la maggior parte. Sia chiaro: ognuno ha il diritto di essere ciò che crede sulla base di scelte esistenziali consapevoli e meditate. E nessuno deve permettersi di offendere, minacciare altri solo perché non la pensano come lui. Mi interrogo tuttavia sul perché di tanto sussiego intellettuale, di tanto atteggiamento sprezzante verso chi magari non esibisce quarti di nobiltà culturale o ancora verso chi non ha potuto o voluto darsi una preparazione all’altezza. Intellettuali incapaci di scendere dal proprio Aventino e mescolarsi, condividere con gli altri, con la loro comunità, momenti di gioia e di dolore. Un atteggiamento provocatorio, che si trincera spesso dietro a un vittimistico e piagnucoloso complesso di emarginazione.
A chi oggi rivendica la patente di “ebreo progressista e illuminato”, a chi oggi non riesce neppure a riconoscere un testo della cultura ebraica nella sua basica divisione, a chi invoca e mette in mostra strumentalmente lo spirito dialettico del Talmud senza sapere neppure decifrarne una misera lettera, io dico che sarebbe giunto il tempo di scendere dal piedistallo per mettere al servizio di altri ebrei – più umili e semplici – competenze e cultura, senza snobismi, senza arroganza. E forse insegnare. Ma anche imparare tante cose. Di fronte ai pericoli di oggi, agli interrogativi inquietanti che agitano le nostre Comunità, non possiamo permetterci divisioni interne. A un ebraismo italiano che conta solo 25 mila anime (!), l’antisemitismo che si accompagna alla santificazione retorica della Shoah, il timore per la sopravvivenza fisica di Israele, la minaccia del terrorismo globale che ci vede consapevolmente obiettivi sensibili, tutto questo ci chiama e ci scuote, ci tira per la giacchetta e ci strattona. Ecco allora che una strategia possibile può diventare quella di serrare le fila e riappropriarsi della possibilità di costruire un domani a partire da quel nobile insegnamento dei Profeti – forse un po’ meno trendy di quelli richiamati negli interventi dei nostri intellettuali – “…. betòkh ammì anokhì yoshàvet”, “in mezzo al mio popolo io me ne stò…” (2 RE, 4; 13), sempre e comunque.