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    ISRAELE

    “Il giorno più lungo” di Sharon Nizza: l’amore indistruttibile di Israele per la vita

    “Il giorno più lungo” di Sharon Nizza, giornalista e politologa italoisraeliana con una profonda e radicata conoscenza di Israele e di tutto lo scacchiere mediorientale, è in edicola come supplemento del quotidiano La Repubblica. Il 7 ottobre 2023 il mondo ha assistito in diretta alla più devastante tragedia nella storia dello Stato di Israele: un eccidio, perpetrato da Hamas, in cui sono state massacrate 1204 persone, 310 tra soldati e poliziotti, 817 civili israeliani e 77 cittadini stranieri; 251 persone sono state rapite, di cui 37 cittadini stranieri, e 25 soldati. Nel libro vengono ricostruiti meticolosamente i momenti cruciali che dalle 6:29 hanno scandito l’orrore di quel sabato nero, intrecciando testimonianze dirette, filmati, documenti, messaggi e telefonate, per descrivere ciò che è apparso per quell’intera giornata totalmente indescrivibile. Pagine fitte, incalzanti in cui si narrano storie tragiche, in alcuni, pochissimi casi, a lieto fine, delle persone e degli eventi che hanno marchiato indelebilmente la pagina più nera della storia d’Israele.
    Shalom ha incontrato l’autrice, Sharon Nizza.

    Partiamo dalla dedica, che nel libro compare in ultima pagina. Chi è Oliver?
    Oliver è il figlio di Nadav Kipnis e Sharon Lavon, sfollati dal Kibbutz Be’eri. È nato il 16 agosto 2024. Il suo nome racchiude la memoria dei suoi nonni, uccisi il 7 ottobre, con l’acronimo della frase in ebraico: “Eviatar e Lilach manterranno la gioia nei nostri cuori”. I genitori di Nadav sono stati uccisi nel pogrom del 7 ottobre insieme ad altri due famigliari, mentre altri nove venivano rapiti. Uno tra loro è ancora ostaggio a Gaza. Ho conosciuto Nadav nei primi giorni dopo l’attacco, quando ancora non sapeva quale fosse il destino dei suoi genitori (che inizialmente sono stati dati per rapiti, poi dispersi, infine identificati come morti con l’esame del dna sui loro resti). La famiglia Kipnis ha anche cittadinanza italiana, quindi si è sviluppato un rapporto stretto con Nadav, che ho seguito dagli inizi della crisi. Siamo anche venuti in Italia a novembre, quando c’è stato l’incontro con il Papa. Oliver è stato concepito poco dopo la tragedia, la più concreta testimonianza della forza insita nel cerchio della vita e della morte. Mi auguro che possa tornare a Be’erì quanto prima, e crescere come quarta generazione della sua famiglia nel Kibbutz, nella speranza che la sua possa essere la prima a vivere un futuro di pace.

    Più di un quarto dei 380 abitanti del Kibbuz di Nir Oz viene ucciso o rapito nell’arco di poche ore in una giornata che, viene documentata nella sua atroce diretta a partire dalle 9:30 per il canale al-Hadath da Muthanna al-Najjar. Vi sono anche le ultime immagini di Ariel e Kfir Bibas in vita?
    Le immagini di Al-Najjar dall’interno del Kibbutz Nir Oz sono uno dei momenti cardine di quella giornata, in cui con il passare delle ore emergevano dettagli sempre più assurdi: prima le immagini degli uomini di Hamas nelle strade di Sderot, poi quelle di civili portati a Gaza, come Noa Argamani, dirette live su Facebook di uccisioni, come nel caso di Bracha Levinson o della famiglia Idan. Poi questo signore palestinese che non indossa un giubbotto da giornalista, ma che riporta live per un canale arabo da dentro il Kibbutz Nir Oz. Nelle sue riprese si identificano diversi ostaggi mentre vengono rapiti, tra cui il dodicenne Erez Calderon (che nella sua cronaca chiama “il piccolo colono”) e anche Shiri Bibas mentre stringe forte a sé i suoi bimbi dai capelli rossi, Ariel, 4 anni, e Kfir, 9 mesi, avvolti in una coperta, scalzi, in pigiama. Alcuni mesi dopo, l’Idf ha diffuso un altro video di loro tre mentre sono condotti a Khan Yunis. Di loro ad oggi non si hanno informazioni ufficiali. Il padre dei piccoli, Yarden Bibas, è stato rapito a parte ed è ripreso in diversi filmati girati già dentro la Striscia di Gaza, con la testa sanguinante, mentre la folla gli si accanisce contro, lo insulta, lo aggredisce, gli sputa addosso.

    Alle 10:30 mentre i suoi nipoti stanno lottando per le loro vite al Kibbutz Nir Oz, il dottor Yuval Bitton, ripensa a quando nel 2004 salvò la vita al detenuto-paziente Yahia Sinwar che gli disse «Grazie Dottore, ti devo la vita».
    Yuval Bitton è una delle testimonianze dolorose cui ho dato spazio nel libro. Ha iniziato la sua carriera come dentista del servizio penitenziario israeliano, per poi arrivare a essere il capo dell’intelligence dello stesso istituto. Quindi ha ore e ore alle spalle di conversazioni con Sinwar e altri detenuti ora nella leadership di Hamas. «Ora siete forti, ma forse tra dieci o vent’anni sarete deboli, e attaccherò», glielo ripeteva sempre Sinwar. Bitton ha contribuito alla diagnosi che ha salvato la vita a Sinwar mentre era detenuto. Il 7 ottobre suo nipote Tamir viene ucciso a Nir Oz e portato ostaggio a Gaza. Anche Bitton è una delle figure che ho seguito dall’inizio della guerra in diverse tappe e abbiamo avuto conversazioni anche profonde su questo destino atroce che ha accompagnato la sua storia personale in questa tragedia. Sembra un perfetto script di Hollywood, una storia da Fauda. E invece è pura realtà.

    La “Ground Zero del massacro” è il Nova festival. Nel libro dedichi molte pagine a “una delle tribù più alternative e idealiste d’Israele” di cui faceva parte Noa Argamani.
    Alle 10.30 del 6 ottobre il video di Noa Argamani comincia a fare il giro del mondo attraverso i social media. Circola con il commento in arabo di chi l’ha caricato sui social che recita: «I nostri ragazzi hanno fatto il loro dovere» con tanto di faccina che piange dalle risate. Mi ricordo benissimo che l’ho visto e ho fatto subito un post dove aggiornavo live su quello che stava accadendo, e Facebook me l’ha eliminato poco dopo perché il “video viola gli standard etc. etc.”. Per me quel momento, insieme all’annuncio dell’uccisione di Ofir Libstein, che era il sindaco di Shaar Hanegev e residente di Kfar Aza che conoscevo personalmente e che è stato il primo nome di vittima ufficialmente diffuso quella mattina verso le 10:00 (e anche l’unico per lunghe ore), ecco quei momenti mi hanno fatto pienamente realizzare già allora che Israele stava entrando nella guerra più lunga della sua storia.

    A cinquant’anni e un giorno dall’attacco congiunto egiziano-siriano nel giorno solenne del digiuno del Kippur del 1973 – che, fino al 7 ottobre, era considerata la più disastrosa sconfitta d’Israele – la storia si è ripetuta. Una disfatta di proporzioni ancora superiori è avvenuta. A poche ore da Rosh haShanà quale ricordo può essere di buon auspicio per il nuovo anno?
    È piuttosto difficile essere ottimisti in questo periodo, perché la situazione è davvero estremamente tragica, su più fronti: Gaza, Libano, Cisgiordania, Siria, Yemen, Iran, nonché la delegittimazione internazionale. Nel libro accenno al contesto più ampio soltanto nell’epilogo, che è un’analisi separata che merita un volume a parte (e vedo che ne stanno già uscendo diversi in merito). Questo libro invece vuole essere una cronaca dettagliata dei momenti cruciali che hanno indelebilmente segnato questo sabato nero, avvenuti sotto agli occhi del mondo, ripresi, trasmessi live, documentati da innumerevoli ultimi scambi whatsapp. Dovendo andare su una delle poche immagini positive che emergono dalle storie raccontate nel libro, ce n’è una che hanno raccontato diversi testimoni, di una cinquantina di giovani del Nova Festival che trovano riparo dietro a un carro armato distrutto (arrivato lì assolutamente per caso, non perché sapesse del festival) e conducono una battaglia assolutamente impari (con loro 4 soccorritori armati, contro centinaia di Hamas). E mentre in modo in un certo senso rocambolesco si forma questa specie di unità improvvisata tra questi giovani bloccati per ore nel fuoco incrociato, e chiaramente ci sono urla, disperazione, caos insomma, uno di loro, Daniel Sharabi, che aiutava con il suo background militare da paramedico, grida: «Basta! Silenzio! Ci sono feriti e persone che combattono, tutti gli altri zitti o pregate!». Improvvisamente ognuno ha cominciato a mormorare tra sé e sé e poi si sono uniti tutti in coro, compresi due fratelli drusi: «Shemà Israel Adonai Eloenu Adonai Echad».

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