Ad un anno di distanza dagli attacchi del 7 ottobre, Israele combatte lungo tutti i suoi confini contro la morsa militare dei gruppi terroristi creati dall’Iran, mentre gli ebrei della Diaspora, soprattutto in Europa e Stati Uniti, sono alle prese con la più violenta ondata di intolleranza dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: di questo parla con Shalom il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, con alle spalle una lunga esperienza in Medio Oriente nonché autore di numerosi saggi di politica estera, ultimo dei quali “Mediterraneo Conteso”, edito da Rizzoli. La tesi di Molinari è che “gravi pericoli incombono sul popolo ebraico” obbligando a studiare in profondità il conflitto fra democrazie ed autocrazie che include il Medio Oriente.
Ad un anno di distanza dal 7 ottobre, cosa l’ha colpita di più di quanto avvenuto?
Le parole che mi ha detto Sami Modiano, già deportato ad Auschwitz per descrivere il 7 ottobre. Mi disse che lo avevano colpito due caratteristiche dell’attacco di Hamas perché gli ricordavano i nazisti. Le grida di gioia dei terroristi mentre sparavano sui civili israeliani proprio come ridevano i nazisti uccidendo gli ebrei, sparando ai neonati gettandoli in aria. E la violenza che ti aggredisce all’improvviso, mentre sei tranquillamente in casa, divorando in un attimo la vita. Come avveniva durante le deportazioni e le stragi dei nazisti. Quando sono andato in visita al kibbutz di Nir Oz, guardando le case incenerite ed ascoltando le testimonianze dei sopravvissuti, le parole di Sami Modiano mi hanno aiutato a comprendere la profondità del male.
Gli attacchi del 7 ottobre hanno sconvolto la popolazione israeliana e lasciano attoniti gli ebrei di tutto il mondo. A un anno di distanza, il popolo ebraico è riuscito a rialzarsi e reagire?
Ad un anno di distanza gli ebrei sono alle prese con grandi pericoli. Israele deve affrontare la guerra più lunga dal 1948, gli ebrei della Diaspora il più pesante clima di intolleranza dal 1945. Il pericolo per Israele viene dall’offensiva su più fronti da parte di milizie terroristiche create dall’Iran in più regioni del Medio Oriente per dissanguarla – Hamas e Jihad Islamica a Gaza e nella West Bank, Hezbollah in Libano e Siria, Kataib Hezbollah in Iraq, Houthi in Yemen – mentre per la Diaspora la minaccia viene da un antisemitismo fisicamente aggressivo che va oltre pregiudizi ed intolleranze, arrivando ad attaccare fisicamente persone e luoghi ebraici in più Paesi. A cominciare da Nordamerica, Europa ed Oceania. È stato il 7 ottobre che ha dato inizio a tutto ciò perché la possibilità di realizzare con successo un sanguinoso pogrom nel bel mezzo del XXI secolo ha fatto percepire Israele come vulnerabile, convincendo i suoi avversari più feroci che può essere aggredita e in ultima istanza distrutta. Per questo gli ebrei, non solo in Israele, sono chiamati a riaffermare il diritto all’esistenza dello Stato ebraico.
Dopo il 7 ottobre, si è assistito, in molti casi sin da subito, alla demonizzazione dello Stato d’Israele. Perché questo ribaltamento della realtà?
La demonizzazione fa parte del conflitto. Delegittimare da un punto di vista morale lo Stato ebraico significa voler privare gli ebrei del diritto di avere una nazione. La campagna di accuse sul “genocidio dei palestinesi”, come i paragoni fra sionismo e nazismo, rientrano in questa campagna che fa leva su pregiudizi vecchi e nuovi ma ha un’aggressività senza precedenti dal 1945 perché si diffonde grazie ai social network, contagiando un pubblico ampio. Se c’è un elemento che più descrive tale campagna è la deumanizzazione degli ostaggi catturati da Hamas: iniziò subito dopo il 7 ottobre con le azioni di coloro che strappavano le loro immagini, a New York come a Londra, ed è continuata con la diffusione di bugie velenose su di loro sul web. Le vignette che beffeggiavano volgarmente Noa Argamani dopo la liberazione ne sono l’esempio più lampante.
Nella guerra a Gaza alcuni obiettivi non sono ancora stati perseguiti: la liberazione di tutti gli ostaggi, la cattura di Yahya Sinwar, la totale distruzione della rete dei tunnel sotterranei. Sono obiettivi realistici? Raggiungere uno fra questi potrebbe accelerare la fine delle operazioni militari?
L’obiettivo cruciale per Israele è ricostruire la propria deterrenza. Dal 1948 in poi, l’unica maniera per vivere in una regione come il Medio Oriente popolata da temibili avversari è stata proiettare una deterrenza capace di far comprendere che non può essere distrutto. La deterrenza è certo militare, ma non solo: va dagli accordi di pace con i vicini allo sviluppo economico-scientifico. Deterrenza è ciò che fa percepire come irreversibile l’esistenza dello Stato ebraico. In questo caso, significa infliggere a Hamas una sconfitta sul campo comprensibile a tutti – inclusa la cattura o eliminazione dei suoi leader – come anche mettere in condizione Hezbollah di non minacciare più la Galilea dalle sue basi in Libano. In tale cornice, la liberazione degli ostaggi è un obiettivo irrinunciabile perché fino a quando uno solo di loro resterà nelle mani di Hamas, Israele sarà percepita come ricattabile, vulnerabile. Non dobbiamo dimenticare che Sinwar venne liberato da Israele nello scambio per ottenere la riconsegna di Gilad Shalit. È la difficoltà per Israele di raggiungere tali risultati a darci la dimensione della complessità del conflitto.
Che valenza hanno le eliminazioni di leader di Hezbollah e Hamas come Hassan Nasrallah e Ismail Haniyeh?
Servono proprio a ricostruire la capacità di deterrenza. Come avvenne dopo la strage alle Olimpiadi di Monaco del 1972. La scelta di Golda Meir di perseguire ovunque i responsabili nasceva dalla consapevolezza che se fossero riusciti a sopravvivere Israele ne sarebbe uscita indebolita in maniera strategica. Ora la scelta nei confronti dei responsabili del pogrom del 7 ottobre si basa sullo stesso principio. Riguarda i leader di Hamas ma anche degli altri gruppi terroristici, come Hezbollah, Jihad islamica e Houthi, il cui dichiarato intento è la distruzione di Israele.
Come può Israele affrontare la minaccia iraniana per garantire una pace duratura?
La strada sono gli Accordi di Abramo. Se il 7 ottobre Hamas attacca per far fallire i negoziati Israele-Arabia Saudita è perché in Medio Oriente si confrontano due visioni opposte. Una basata su pace, rispetto e convivenza fra i Paesi della regione, l’altra sulla guerra. Ovvero, gli accordi di pace siglati con l’Egitto, la Giordania, gli Emirati, il Bahrein, il Sudan e il Marocco disegnano uno scenario di integrazione di lungo termine fra Israele e Paesi arabi sunniti che può garantire sicurezza e prosperità al Medio Oriente mentre l’Iran sciita punta a travolgerli, azzerarli, per imporre la propria egemonia sulla regione. Questa è la vera partita strategica in corso. Teheran persegue la guerra per dominare il Medio Oriente ed ha nella distruzione di Israele l’obiettivo attorno al quale perseguire tale disegno. Per disinnescarlo Israele deve puntare sulla dinamica opposta ed il fatto che i Paesi arabi sunniti firmatari di tali accordi non li abbiano mai messi in dubbio durante questa lunga guerra ci fa capire quanto anche loro comprendano l’entità della sfida.
In questi mesi, nelle democrazie occidentali gli episodi di antisemitismo sono aumentati in maniera esponenziale. Come si deve affrontare la nuova ondata di antisemitismo?
L’antisemitismo, da millenni, si nutre di bugie e questa nuova ondata non fa eccezione. L’accusa del deicidio si è protratta per oltre 1900 anni, i pogrom si sono alimentati per secoli con le falsità più terribili ad esempio sugli omicidi rituali, Dreyfus venne condannato perché ingiustamente accusato di spionaggio, il nazismo si consolidò predicando che gli ebrei erano subumani, Stalin li accusava di una serie infinita di complotti contro di lui ed a ben vedere anche Aman, nell’Antica Persia, adoperò motivazioni simili con il re Assuero per tentare di annientarli. Le bugie che oggi Hamas cavalca sono fondamentalmente due: gli ebrei non sono una nazione e dunque Israele non deve esistere; Hamas rappresenta tutti i palestinesi. In realtà gli ebrei sono un popolo-nazione con radici profonde nella terra di Israele e Hamas combatte l’Autorità palestinese di Abu Mazen quanto Israele perché considera il nazionalismo laico arabo-palestinese ed il sionismo entrambi avversari da distruggere, al fine di edificare un Califfato jihadista basato sulla versione più fondamentalista e intollerante dell’Islam. La migliore arma contro le bugie, insegnava Elie Wiesel, è la conoscenza, lo studio. Certo, una bugia si diffonde assai più rapidamente di una qualsiasi forma di conoscenza ma questo ci dice quanta determinazione, quanto tempo e quanti sforzi servono per sconfiggere l’intolleranza. È un maratona, non uno sprint. Ma l’esito è già scritto perché le bugie, per grandi e velenose che possono essere, finiscono sempre nella spazzatura dell’umanità.
Quanto pesa la sovrapposizione fra antisionismo ed antisemitismo?
L’antisionismo è una forma contemporanea di antisemitismo perché nega agli ebrei il diritto di essere nazione riconosciuto a tutti gli altri popoli. Nasce come fonte di delegittimazione di Israele nel giugno del 1967, quando l’Urss si schiera dalla parte del nazionalismo arabo, identificando in Israele una espressione del “colonialismo occidentale” inaugurando la battaglia antisionista, fino al punto da riuscire nel 1975 a spingere l’Assemblea generale dell’Onu ad approvare l’equiparazione fra sionismo e razzismo. Terminata la Guerra Fredda, l’Onu annullò quel voto ma ora la stessa intolleranza ritorna, con temi e termini assai simili a quelli coniati dalla propaganda sovietica, per identificare nei sionisti il male assoluto. In Italia, dopo l’attentato del 9 ottobre 1982 alla sinagoga di Roma, fu l’architetto Bruno Zevi a spiegare in maniera lucida, intervenendo davanti al Consiglio Comunale, l’equiparazione fra antisionismo ed antisemitismo. Negli ultimi anni, due Capi dello Stato, prima Giorgio Napolitano e poi Sergio Mattarella, hanno parlato in pubblico su questa equiparazione, identificandola come fonte della più pericolosa intolleranza antiebraica.
Quanto pesa l’irrisolta questione palestinese?
È lo strumento che gli avversari di Israele adoperano per delegittimare l’esistenza. Iniziarono a farlo gli Stati arabi nel 1948, rifiutandosi di integrare i profughi palestinesi mentre Israele integrava i profughi ebrei proprio dai Paesi arabi, e lo fanno oggi l’Iran ed i suoi alleati, Hamas ed Hezbollah. In realtà il sionismo, sin dalle origini, professa la coesistenza fra ebrei ed arabi. Per questo Ben Gurion tentò in ogni maniera di impedire l’esodo degli arabo-palestinesi nel 1948. I pionieri sionisti, che fuggivano da un’Europa di intolleranza e persecuzioni, volevano costruire un modello di convivenza fra Israele ed i suoi abitanti non ebrei,in pace con gli Stati vicini. Gli accordi di Oslo del 1993 nascono da questa impostazione. Non a caso Hamas non li ha mai riconosciuti, ha cacciato l’Autorità palestinese da Gaza nel 2007 e punta a fare lo stesso dalla West Bank. Il conflitto israelo-palestinese può avere soluzione solo attraverso accordi di coesistenza, basati su sicurezza e diritti per entrambi. Una coesistenza, come spesso avviene in Medio Oriente, basata sul riconoscimento fra nemici.
Siamo alla vigilia delle elezioni americane. Quali prospettive si aprono con i due diversi candidati alla Casa Bianca, Donald Trump e Kamala Harris?
L’America è la più grande democrazia del Pianeta e la sua vocazione è il legame con le altre democrazie. A prescindere dal nome del suo presidente. Il legame con Israele – come con la Gran Bretagna, l’Italia, l’Australia o la Corea del Sud – si basa anzitutto sui valori condivisi. Ed è un legame che riassume e descrive l’identità dell’America, la vocazione universale della sua Dichiarazione di indipendenza. Per questo il presidente americano è considerato dai suoi cittadini anche il “leader del mondo libero”. Ciò non toglie che singoli presidenti possono avere motivi specifici di maggiori intese o contrasti politici con i governi di Israele e, più in generale, con il mondo ebraico. Ma non bisogna confondere i due piani. D’altra parte Franklin D. Roosevelt guidò l’America nella Seconda Guerra Mondiale ma non volle bombardare i campi di sterminio, Truman riconobbe Israele a dispetto delle obiezioni dei suoi ministri più importanti, Carter fece gli accordi di Camp David nonostante i profondi disaccordi con Begin sugli insediamenti, Reagan fu grande alleato di Israele ma si infuriò per il raid contro il reattore nucleare iracheno. A prescindere da chi vincerà fra Kamala Harris e Donald Trump, Israele continuerà ad avere negli Stati Uniti un partner strategico di primaria importanza, sulla base di valori ed anche interessi comuni.
A quali interessi si riferisce?
Hanno a che fare con la più ampia partita strategica globale di cui il Medio Oriente è parte. Le tre maggiori potenze – Stati Uniti, Russia e Cina – hanno interessi conflittuali in Medio Oriente che nascono dal più vasto tentativo di Mosca e Pechino di ridefinire l’architettura di sicurezza internazionale a scapito di Washington e, più in generale, delle democrazie. Se infatti in Medio Oriente gli Stati Uniti sostengono gli Accordi di Abramo, la Russia è invece alleata dell’Iran con l’intento di generare crisi ed instabilità per obbligare Washington a distrarre forze e risorse dalla guerra in Ucraina. E anche Pechino guarda a Teheran, al fine di integrarla nella Nuova Via della Seta. In tale quadro è evidente come l’interesse di Israele coincida con quello degli Stati Uniti e, più in generale, delle democrazie.