Hineni. Sono qui. Sono qui per stare accanto al mio popolo, per sostare in raccoglimento e in preghiera nei luoghi dei massacri perpetrati dai terroristi di Hamas il 7 ottobre, per entrare nei kibbuzim distrutti, nelle case delle vittime, dei rapiti, per ascoltare le voci dei loro famigliari, di chi è sopravvissuto e non riuscirà mai più a superare il trauma, per capire l’immane lavoro svolto da medici, paramedici, soccorritori, uomini e donne di Zaka, per abbracciare i giovanissimi soldati di IDF, per distrarre, anche solo per qualche minuto, i piccoli feriti ricoverati negli ospedali. Zaka, acronimo in ebraico di “identificazione delle vittime del disastro”, è un’associazione di volontari fondata dal rabbino Yehudà Moshe Zahav.
Molti viaggi sono stati organizzati al Sud d’Israele dopo il 7 ottobre sotto l’egida delle maggiori organizzazioni ebraiche mondiali; ad accomunarli l’amore indissolubile per Israele e per il suo popolo martoriato, non la banale pietas, non la doverosa solidarietà, ma il riconoscimento della forza e della resilienza dello Stato d’Israele.
Giornate lunghe e dolorose, sotto il sole cocente, nei campi con frutta e verdura pronta per essere raccolta, nei vialetti spettrali di Kfar Aza, Nir Oz e Be’eri, a Reim, nella spianata in cui si è svolto il Nova Festival.
A Tkuma, a pochi chilometri da Sderot, c’è quello che viene definito “cimitero delle auto”: è una immensa catasta con 1600 auto crivellate dai colpi, molte ridotte a rottami contorti e arrugginiti, portate dopo l’attacco. Ci sono anche i pick up usati dai terroristi, i resti di un’ambulanza, un mezzo militare coinvolto nella battaglia per la difesa dei kibbuzim, una moto, coperte di civili. L’occhio non riesce ad abituarsi al muro di lamiere, ai resti delle auto completamente bruciate. Ogni auto parla alla coscienza degli assassini.
L’ospedale Barzilai di Ashkelon è da sempre in prima linea nelle emergenze, ha 650 posti letto, 1700 impiegati, 250 medici, 700 infermieri: «Siamo l’unica, grande struttura ospedaliera vicino Gaza – spiega Ron Lobelvice direttore della struttura -. In tempi normali, venivano a farsi ricoverare da noi tra i 10 e i 20 palestinesi al giorno. Qui non si discrimina tra israeliani e palestinesi: nessuno chiede nulla a nessuno. Stai male? Se bussi, ti verrà aperto».
«Un razzo ha colpito l’area accanto alla neonatologia» spiega il professor Moshe Schaffer, primario di oncologia, ha studiato a Padova e Monaco di Baviera, ha conseguito il dottorato e poi è tornato in Israele. «Le pareti distrutte sono state ricostruite con incredibile rapidità e professionalità. Medici e infermieri non hanno dormito per settimane in ospedale: c’era bisogno di loro, la tragica realtà era che non potevano più tornare nelle loro case perché erano distrutte e in alcuni casi i loro famigliari erano stati uccisi». Sono persone straordinarie, determinate, sorridono amichevoli ma traspare la tristezza, affrontano il destino con forza, serenità e solidarietà reciproca.
Al kibbutz di Nir Oz vivono solo più gatti neri, cui i pochi sopravvissuti ai massacri portano il cibo due volte in settimana. Entrare nelle case distrutte, vedere i luoghi della vita quotidiana massacrata è terribile: qua e là giochi abbandonati nei giardini, brandelli di una sukkà che strappano il cuore. Hineni, sono qui in raccoglimento e preghiera davanti alle foto di Ariel e Kfir Bibas appese alla porta di quella che è stata la loro cameretta. I due bimbi dai capelli rossi sono e resteranno per sempre il simbolo dello strazio e del dolore di un intero popolo e di un mondo troppo spesso indifferente.