A metà degli anni ’40, molti giovani partirono dall’Italia così come da altri Paesi europei come volontari nell’allora Palestina mandataria, futuro Stato d’Israele, spesso senza sapere veramente in quali imprese sarebbero stati coinvolti. Nell’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma (ASCER) “Giancarlo Spizzichino” troviamo le schede anagrafiche di Giulia Funaro, arrivata in Erez Israel nel 1945; Lalla Funaro; Vasco Calò, la cui residenza a Roma, così si rileva dal certificato, era l’Orfanatrofio israelitico; Flaminia Anticoli, emigrata nel 1948; Italia Ascarelli; Leo Emanuel Di Capua e tanti altri ancora.
Era il giugno 1944 quando gruppi di ragazzi della capitale usciti dalla clandestinità aspiravano alla costruzione di una nuova vita, una nuova identità ebraica dopo la Shoah grazie agli insegnamenti dei soldati delle Jewish Units dell’VIII armata britannica. Dopo la liberazione di Roma, la vita ebraica lentamente riprendeva e i militari ebrei, provenienti anche dalla Palestina mandataria, formavano soprattutto le nuove generazioni secondo i principi del Sionismo.
Dunque, nel giugno del 1944 si formò il gruppo giovanile sionistico dell’Hechalutz (Il pioniere), e nel gennaio del 1945 ebbe luogo a Roma un convegno di gruppi sionistici dell’Italia liberata, al termine del quale veniva decisa la ricostituzione della Federazione sionistica italiana e la possibilità che i giovani romani, sia uomini che donne, potessero arrivare nella Terra dei Padri clandestinamente. Tra questi, Sergio Minerbi, ebreo romano, il quale sentì immediatamente l’anelito a realizzare l’aliyà andando a vivere in un kibbutz. Il 15 luglio 1944 fu fondata vicino Roma la Hakhsharà la Negev, una scuola di preparazione per tutti quei giovani che erano intenzionati a ricostruirsi una vita in quello che di lì a poco sarebbe divenuto lo Stato ebraico. Passarono alcuni anni e finalmente Minerbi arrivò in Palestina come rappresentante del movimento Hechalutz, come riportato tra le carte della Federazione Sionistica Italiana, e il 29 novembre 1947 arrivò al kibbutz Ruhama. Queste furono le sue parole: “Tutto il kibbutz, circa 200 persone, era riunito nella sala da pranzo, in attesa dell’annuncio della decisione delle Nazioni Unite sulla spartizione della Palestina […]. Quando calcolai che avevamo ottenuto la maggioranza, rientrai nella sala da pranzo al grido di ‘abbiamo lo Stato’. Dopo circa un’ora ero a letto quando fui svegliato con queste parole: ‘Questo è un fucile inglese, qui si mettono le pallottole. Da adesso siamo in guerra, quindi comincia a montare la guardia’. Questa fu l’unica istruzione militare che ricevetti” (Sergio Minerbi, L’esperienza di un giovane chalutz” in La rassegna mensile di Israel, vol.80, n.2/3, L’Italia in Israele. Il contributo degli ebrei italiani alla nascita e allo sviluppo dello Stato d’Israele, maggio-dicembre 2014, p.166).
Partire clandestinamente, intraprendere un viaggio lungo e pericoloso, irto di ostacoli, significò per questi giovani animati da ideali pionieristici non solo costituire nuove comunità agricole su di una terra lasciata incolta dalla popolazione locale per molto tempo, ma combattere sia l’esercito inglese che ancora controllava il territorio, sia gruppi di arabi armati che aggredivano continuamente gli immigrati. Fortunatamente, in Palestina si era costituito sin dal 1920 l’esercito di difesa dell’Haganà, un organizzazione militare nata per combattere le rivolte degli arabi contro le comunità agricole ebraiche. Combattere per avere un proprio Stato, lottare per un ideale sognato tutta la vita, morire per la propria terra. Anche tante donne si inserirono in Palestina nella mobilitazione civile e nel Palmach, le unità speciali d’assalto dell’Haganà. Tutte queste persone che arrivate nella Terra Promessa imbracciarono con una mano il fucile per difendersi e con l’altra la zappa per far rinascere una terra desertica ed incolta. Shemot, nomi che sacrificarono la loro vita per affermare, come scrisse Arrigo Levi nel novembre del 1948, “che sono stati capaci di un miracolo […]. Un miracolo che si compie tutt’oggi dinnanzi ai nostri occhi, che parla delle infinite riserve di energie del popolo ebraico”.