Nei Pirkè Avòt (Massime dei Padri, 5:18) è scritto: “Ogni disputa (machlòket) che avvenga per fini onesti finisce col mantenersi; non così invece delle discussioni che non avvengono per onesti fini. Quale esempio si può citare del primo tipo? Le discussioni di Hillel e Shammai. E del secondo tipo? Quelle di Korach e di tutto il suo seguito” (Trad. Joseph Colombo, 1931). (La parola machlòket può venire tradotta in modi diversi: disputa, dissidio, controversia, divergenza, discussione)
R. Shimshon Nachmani (Modena, 1707-1779, Reggio Emilia) in Zera’ Shimshòn (Kòrach, 9) cita il Talmud Yerushalmì (Peà, 4a) dove è detto: “R. Shemuel figlio di Nachman a nome di r. Yonatan [disse] che è permesso parlare male di coloro che causano dissidi (machlòket)”. L’argomento viene citato opportunamente da r. Nachmani riguardo a Kòrach, Datàn e Aviràm che, come raccontato nella parashà, iniziarono una ribellione contro Moshè e Aharon.
R. Barukh Halevi Epstein (Belarus, 1860-1941) in Torà Temimà (Bemidbàr, 16:12, nota 9) dimostra che è permesso parlare male di chi crea dissidi dal versetto “E Moshè mandò a chiamare Datàn e Aviràm figli di Eliav ed essi risposero: Non verremo. Non ti basta che ci ha fatto uscire da una terra stillante latte e miele (dall’Egitto) per farci morire nel deserto? Vuoi anche signoreggiare su di noi? Tu non ci hai portato in un paese stillante latte e miele (la terra d’Israele) per darci un possesso di campi e di vigne. Vorresti forse accecare gli occhi di questa gente? Noi non verremo”.
Rashì (Troyes, 1040-1105) spiega che fu il messaggero mandato da Moshè che gli portò la risposta di Datan e Aviram.
R. Epstein afferma che il fatto che questa risposta sia riportata nella Torà, dimostra che il messaggero non commise la trasgressione di fare maldicenza quando riferì a Moshè quello che avevano detto i due ribelli. Questo perché al messaggero del Bet Din (tribunale) è permesso riferire parola per parola gli insulti della parte chiamata in causa che rifiuta di apparire davanti al giudice.
R. Nachmani, dal canto suo, chiede perché sia permesso trasgredire la proibizione di fare maldicenza solo per il fatto che l’oggetto della maldicenza è un peccatore. Infatti la gravità della maldicenza è tale che i maestri insegnano che è peggiore dei tre peccati capitali di idolatria, rapporti sessuali proibiti e spargimento di sangue. Per rispondere a questa domanda egli cita nuovamente il Talmud Yerushalmì (ibid.) dove è detto che chi fa maldicenza allontana la Provvidenza. Se l’oggetto della maldicenza è una persona che ha creato dissidio, quest’ultimo ha già allontanato da sé la Provvidenza e pertanto è permesso parlare male di lui. Questo perché la Provvidenza si trova solo dove c’è pace e non dove c’è ira e odio. A tale fine egli cita re Davide che pregò il Signore di allontanare la Sua Provvidenza da coloro che lo avevano denunciato a re Shaul, che lo voleva uccidere, quando egli era in fuga.
In secondo luogo r. Nachmani osserva che se la Provvidenza si è allontanata da chi crea dissidi, con tutto ciò è possibile che anche parlando male di chi se lo merita causiamo un danno alla nostra anima. Su questo punto r. Nachmani spiega che la maldicenza è proibita perché facendo maldicenza si causano dissidi e odio tra le persone. Ma parlando male di chi crea dissidi non si fa nulla di tutto questo, perché chi crea dissidi mostra già di odiare la pace. Pertanto costui non merita di vivere in pace, come dice il navì (profeta) Yesha’yà (Isaia, 48:22): “Non c’è pace dice l’Eterno ai malvagi…”. Per questo motivo, affinché il creatore di dissidi non viva tranquillo, è permesso parlare male di lui per fare in modo che le persone lo abbiano in astio, perché così come lui ha fatto, si merita che venga fatto con lui (Lett. Come un uomo misura così viene misurato).