Da domenica 23 giugno a mercoledì 26 giugno nel cuore del quartiere ebraico di Roma, torna un appuntamento atteso e consolidato per la Capitale, Ebraica – Festival internazionale di cultura. Tra i primi incontri in programma domenica, un interessante talk tra lo psichiatra e psicoterapeuta Raffaele Morelli e Rav Roberto Della Rocca dal titolo: “Immaginare un futuro in tempo di crisi: la profezia tra religione e psicologia”. Un dialogo profondo e interessante per riflettere sulla società in cui vivono le nuove generazioni oggi e sul ruolo dei social media. Su questo affascinante e complesso tema Shalom ha intervistato proprio Rav Roberto Della Rocca.
Ad oggi, il mondo sembra essere affetto da mancanza di lungimiranza. Ci sentiamo spesso ostaggi della visione della realtà troppo invadente, come ad esempio a causa dei social: che ne pensa di questo principio e come si colloca nel mondo ebraico?
Nella tradizione ebraica l’individuo non è riducibile ai soli valori collettivi, egli stesso rappresenta un valore assoluto: la specificità dell’anima umana, la singolarità dei suoi attributi costituisce insieme il rischio e il valore dell’individuo e come tale l’uomo è posto di fronte all’Eterno, e non come modello impersonale. Il Creatore vuole dall’uomo la realizzazione della nostra singolare irripetibilità, non l’adeguamento acquiescente a uno schema collettivo prestabilito.
A proposito dell’unicità dell’uomo nella creazione e sul suo valore si afferma nel Talmud babilonese, Sanhedrin 37 a: “…..Perché l’uomo è stato creato solo?…….. Perché l’uomo, quando vuole coniare delle monete, le fa tutte identiche, mentre l’Eterno, pur creando l’uomo con il marchio di Adamo, non crea nessuna creatura simile all’altra”, e perciò, conclude il passo, ogni uomo può e deve dire “per me è stato creato il mondo!”. Se io sono irripetibile, io sono importante e prezioso agli occhi del Signore.
Il mondo sembra aver perso la dimensione di unicità divenendo, in un certo senso, vittima del pensiero di massa. Non si pensa più come individui singoli. Come si potrebbe tornare ad una dimensione più intima e riflessiva?
In una società mediatica e globalizzata ognuno ha l’impressione, per non dire l’illusione, di essere contemporaneamente in rapporto con l’umanità tutta intera. Ma il “tutti in relazione con tutti” significa spesso anonimato, essere soli e persi. Ancora oggi è più gratificante ricevere una chiamata piuttosto che un messaggio telematico, spesso impersonale e predefinito. Tutti necessitiamo di persone che ci chiamano e che ci riconoscono per ciò che realmente siamo. Alla ricerca di una società più intima che consenta ai suoi membri di conoscersi gli uni con gli altri e che apporti alle persone la coscienza di una vita comunitaria qualificata e stimolante senza schermi e senza restare schiacciati dai rispettivi ruoli.
Cosa sono la profezia e il mistero secondo lei? Come si declinano nel mondo di oggi?
L’esperienza profetica come portavoce di un messaggio divino si è interrotta con la distruzione del Tempio di Gerusalemme che ha significato un degrado del livello di sacralità del popolo ebraico. Da quel momento non aspettiamo più voci dal cielo ma ci sforziamo di ascoltare la voce divina attraverso lo studio e l’osservanza della Torà. Non dimentichiamo che l’esperienza ebraica si apre con il comando del Signore ad Abramo: Lekh lekhà, “Vattene via dalla tua terra”, che potrebbe però anche significare “va verso te stesso”, ossia “vai alla ricerca di te stesso”. Questo processo di individuazione esige tuttavia una forma di distacco dal passato, dai preconcetti ereditati, dalle mode e da tutti quei condizionamenti sociali e psicologici non elaborati consapevolmente. “Vattene dentro te stesso”, ascolta la voce che ti viene da dentro e non sempre quella che proviene dall’esterno; soltanto attraverso questo processo Avràm, Abramo, diventa Avraham, “padre di numerose genti” (Genesi 17, 5), un autentico precursore dell’universalismo. Le soluzioni già pronte, le certezze, le convinzioni apparentemente immutabili, non sono utili che a dar tranquillità a chi non vuol porsi le domande scomode che nessuno può però eludere, anche se talvolta, per non impegnarsi nel faticoso compito di inseguire la nostra identità diciamo a noi stessi di averla già raggiunta.