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    ISRAELE

    Dopo l’ordinanza dell’Aia, Israele resiste

    Tre sconfitte
    Con l’ordinanza di venerdì della Corte di Giustizia Internazionale (ICJ) dell’Aia che accoglie (in parte) le richieste del Sudafrica, Israele ha subito la terza sconfitta in una settimana sul fronte giuridico-diplomatico, dopo la richiesta del procuratore presso l’altra corte dell’Aia (La Corte Penale Internazionale – CPI) e il riconoscimento dell’inesistente Stato di Palestina da parte di tre Paesi europei, (Spagna, Irlanda e Norvegia). È vero che la ICJ non ha ordinato a Israele, come chiedeva il Sudafrica (cui si erano associati fra l’altro due vicini importanti per Israele, Egitto e Turchia) di cessare subito la guerra di Gaza ma solo l’operazione a Rafah e che si tratta anzi di una disposizione formulata in termini abbastanza ambigui da permettere a Israele di continuare la caccia ai terroristi, facendo attenzione a danneggiare il meno possibile la popolazione civile, come sta già facendo. L’ordinanza della ICJ dice infatti: “Israele deve fermare immediatamente la sua offensiva militare e qualsiasi altra azione nel Governatorato di Rafah, che possa infliggere al gruppo palestinese di Gaza condizioni di vita che potrebbero portare alla sua distruzione fisica totale o parziale”. E dà a Israele 30 giorni di tempo per riferire, quanto basta cioè per infliggere seri danni all’infrastruttura sotterranea di Hamas e magari, si spera, di arrivare ai nascondigli dove sono prigionieri i rapiti e si celano i capi terroristi.

    Le cause delle scelte antisemite delle Corti
    Ma la sconfitta dell’Aia è chiara. Rafforza la propaganda antisemita e apre la strada a un intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che si potrà fermare solo con un veto americano, certamente pagato a caro prezzo. La Corte non ha avuto il coraggio di dichiarare legittima, com’è, l’autodifesa israeliana e di riconoscere gli sforzi dello Stato ebraico, davvero straordinari e senza precedenti in altre guerre in tutto il mondo, per tutelare i civili. Ha invece accettato l’impostazione accusatoria dei nemici, pur badando a limitarne le conseguenze pratiche. Questa linea di azione, come quella del procuratore della CPI, deriva da diverse cause. In primo luogo vi è la tendenza dei giudici di tutto il mondo (anche in Italia e in Israele) a sostituirsi ai politici nel prendere le decisioni fondamentali per la vita collettiva, anche se nessuno li ha eletti o delegati a questo. In secondo luogo c’è un’impostazione terzomondista dei giudici, della diplomazia, di molti politici, ma anche dei trattati internazionali formulati da diplomatici e giuristi di sinistra, per cui i vincoli vengono posti all’azione degli Stati e invece le azioni di guerriglia sono sempre considerate legittime e giustificate. La giustizia internazionale, come la conosciamo noi, si è consolidata a partire dagli anni Sessanta, in un clima in cui gli eroi dei giovani e degli intellettuali erano Vietnam, Cuba, gli ayatollah iraniani, e già allora i terroristi palestinesi. Oggi Cuba e Vietnam non sono più di moda, anche se pochi hanno preso atto del livello di repressione che li ha colpiti (in particolare nessuno ricorda del tremendo autogenocidio cambogiano) e pochissimi appoggiano davvero la lotta pacifica e davvero liberatoria di donne e giovani in Iran.

    Il mito palestinista e l’odio per le vittime
    Il mito che riassume oggi tutto questo esotismo politico è quello della “Palestina” e non c’è atrocità, corruzione, intolleranza, strage, oppressione a limitare l’appoggio che ottiene dai “progressisti” di tutto il mondo. Che giovani, intellettuali, governi di sinistra, giudici internazionali, personaggi mediatici, movimenti femministi esaltino assassini seriali, violentatori di massa, rapinatori e rapitori di donne e bambini, non può purtroppo meravigliare. Anche gli enormi crimini di Mao, Che Guevara, Gheddafi, Arafat, Khomeini non hanno mai impressionato i benpensanti di sinistra. Che poi le vittime ebree dei palestinisti facciano parte di un popolo che non solo l’Islam, ma anche l’Occidente cristiano e illuminista da sempre “love to hate” (ama odiare, come dicono in inglese), è un’altra ragione. Che gli ebrei abbiano una patria, che osino difendersi e sconfiggere i tentativi di genocidi, piace a pochissimi, nonostante tutte le giornate della memoria e la commozione sull’“Olocausto”. Una volta pensavamo che gli piacessero almeno gli ebrei morti, se non quelli vivi. Oggi sappiamo che piangono solo se gli assassini erano di estrema destra. Le vittime della “lotta popolare” non meritano lacrime per loro. È una verità molto amara, ma bisogna farci i conti.

    Che succede ora?
    Come ha detto l’ex primo ministro Naftali Bennett in un video molto chiaro, dopo il 7 ottobre Israele aveva tre possibilità: liquidare Hamas bombardando massicciamente Gaza, come gli inglesi fecero con Dresda, e liquidare la faccenda in due giorni, ma al prezzo di centinaia di migliaia di morti. Giustamente ha scelto di non farlo e non lo farà. Oppure poteva fare una azione simbolica di “deterrenza” come dopo i cinque attacchi precedenti (limitati però quasi solo ai missili) dei terroristi di Gaza. Questo voleva dire accettare che presto ci sarebbero stati altri 7 ottobre da Gaza, dal Libano e dalla Siria e anche dai territori amministrati dall’Autorità Palestinese. Inaccettabile: Israele non si è bloccato in una risposta “moderata” e non lo farà. Tiene alla vita dei propri cittadini. Oppure poteva prendersi il lavoro faticoso e pericoloso di andare a cacciare i terroristi nelle loro tane, eliminarli, distruggere le infrastrutture, impadronirsi del territorio per quel tanto che serve a ripulirlo, cercando di spostare la popolazione civile usata da Hamas come scudi umani per non colpirla, ma senza accettare “santuari” per il terrorismo, anche se si tratta di moschee, scuole, ospedali, sedi dell’UMRWA, sistematicamente usate come copertura.

    “Con le unghie e coi denti”
    Questa è la scelta di Israele, di tutta Israele a parte qualche manipolo di disfattisti estremisti di sinistra: non di Netanyahu, che è usato secondo una vecchia tecnica come “uomo nero” da odiare in rappresentanza degli ebrei, ma dell’intero popolo israeliano. Così si andrà avanti. I nemici nelle corti e nella diplomazia internazionale ignorano un fatto fondamentale, che il popolo ebraico conosce da millenni: di fronte alla persecuzioni bisogna rinsaldare l’unità, mettere da parte le divisioni, sostenere i propri leader. Chi si illudeva di indebolire il governo israeliano con mandati di cattura, ordinanze, riconoscimenti di movimenti che vogliono la “Palestina” judenfrei “dal fiume al mare” e che hanno sempre rifiutato le paci di compromesso che sono state offerte loro, stanno ottenendo l’effetto opposto: rafforzano l’unità di Israele e la sua determinazione di combattere “anche da solo”, “con le unghie e coi denti”, se necessario, come ha detto Netanyahu.

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