La cerimonia
Erano le quattro di pomeriggio del 14 maggio 1948, in data ebraica il 5 del mese di Iyar 5708 (stranamente le date quest’anno quasi coincidono di nuovo). La sala al piano terra del vecchio museo d’arte contemporanea di Tel Aviv in Boulevard Rotschild 16, che era stata la villa del mitico sindaco Meir Dizengoff, era strapiena: duecentocinquanta persone, quasi tutte vestite di scuro, in giacca camicia bianca e cravatta, contro tutte le abitudini dell’Yishuv, l’insediamento ebraico in Terra di Israele. Sul palco in fondo alla sala c’erano 25 membri del comitato esecutivo dell’Agenzia Ebraica (Moetz HaAm, il governo de facto dell’Yishuv), mentre gli altri 12 erano bloccati all’estero o assediati a Gerusalemme. Sulla parete sopra a loro, una grande fotografia di Herzl e due bandiere del nuovo Stato. Ben Gurion aprì la riunione battendo il martelletto sul tavolo, ed i presenti intonarono l’ Hatiqvah. La lettura di Ben Gurion della dichiarazione durò 16 minuti, e si concluse con la clausola: “Chi accetta la dichiarazione della fondazione dello Stato ebraico ora si alzi”. L’accettazione fu unanime. Contro le abitudini delle riunioni dall’Agenzia era presente anche un rabbino, rav Fishman, che pronunciò la benedizione “Sheheheyanu”, quella che si usa per le novità positive. La cerimonia continuò con l’inno eseguito dall’Orchestra filarmonica di Israele e Ben Gurion la concluse annunciando: «Lo Stato d’Israele è istituito! Questo incontro è aggiornato!». Non c’era tempo da perdere in festeggiamenti, la guerra civile con gli arabi era in corso da sei mesi e già si sapeva che il giorno dopo gli eserciti dei sei stati arabi avrebbero invaso il piccolo territorio tenuto dall’Yshuv.
Il compleanno
Questa sera dunque inizia la giornata che segna il settantaseiesimo compleanno di Israele: è un’età ormai ragguardevole anche per uno Stato (ce n’è di molto più vecchi come la Gran Bretagna e la Cina; ma tanti anche più giovani, almeno come istituzioni riconosciute). E anche stasera in Israele si farà festa, si ballerà in piazza, ci si rallegrerà della vita di un Paese la cui popolazione è comunque al quarto posto al mondo per la felicità. Ma pure oggi la guerra incombe e non c’è molto tempo per le feste. Gli aerei da guerra voleranno come sempre domattina, ma accanto alla parata aerea degli anni normali saranno impegnati nei loro compiti di difesa. E però il compleanno dello Stato ebraico va celebrato nella diaspora come in Israele, se non altro per continuare ad aver coscienza di che straordinario evento si sia trattato.
Un gesto di straordinario coraggio
Quando Ben Gurion decise di forzare la mano ai dirigenti dell’Yishuv e di proclamare l’indipendenza, erano passati quasi 19 secoli dalla caduta di Gerusalemme e dell’ultima autonomia ebraica. C’era stata la profezia di Herzl e ottant’anni di immigrati che avevano provato a far fruttare la terra, la lingua era tornata viva, c’erano le scuole e le università, l’amministrazione e una inizio di esercito, insomma l’intelaiatura dello Stato; ma fu un gesto di straordinario coraggio. Erano contrari gli europei e in particolare la Gran Bretagna, ma anche il Dipartimento di Stato americano (non Truman per fortuna). E anche dentro il mondo ebraico molti consideravano avventata la proclamazione dello Stato: la maggioranza dei charedim, ma anche ebrei progressisti come Hannah Arendt e Leon Magnes (fondatore dell’Università ebraica di Gerusalemme) fecero campagna contro l’indipendenza; Martin Buber si era espresso contro e perfino Chaim Weizmann era perplesso. Gli eserciti arabi, almeno sulla carta, erano assai più forti e organizzati di quello del neonato Israele, cui mancava quasi tutto. L’appoggio dell’Urss era solo tattico, inteso a creare problemi all’Occidente, come si sarebbe visto presto. L’economia, retta dal volontaristico sistema dei kibbutz, zoppicava.
Lo straordinario progresso e le speranze
Ma il miracolo avvenne, Israele superò la guerra, vinse, crebbe, resistette ad altre guerre e al terrorismo, riuscì a produrre un sistema politico, economico, scientifico e civile di straordinaria efficacia, anche grazie alla sua capacità di cambiare: di passare dalla camicia di forza di una specie di socialismo non politicamente oppressivo ma molto burocratico a un capitalismo tecnologico fra i più avanzati al mondo; di integrare un milione e passa di immigrati dall’Unione Sovietica e altri dall’Etiopia, dallo Yemen, da tutto il mondo; di liquidare il predominio politico della sinistra e di superare anche errori come la ricerca di compromessi con il terrorismo nel nome della “pace”. La scommessa di Ben Gurion è stato forse il maggior successo politico del XX secolo. Da alcuni anni il motore politico e istituzionale di questo progresso sembra però essersi inceppato. Le elezioni a ripetizione; l’incapacità di costruire maggioranze stabili; l’odio per Netanyahu che ha bloccato a lungo l’attuazione delle scelte chiaramente di centrodestra dell’elettorato; poi la lunga e astiosa guerriglia di piazza contro il progetto parlamentare legittimo della riforma giudiziaria, che ha proiettato un’immagine indebolita dello Stato e dell’esercito dando ai nemici di Israele, Iran in testa, l’illusione di poter prevalere; il conseguente barbaro pogrom del 7 ottobre; la difficoltà di condurre la guerra anche contro le resistenze degli alleati riluttanti a permettere a Israele di sconfiggere il terrorismo: tutti questi problemi hanno suscitato turbamento e pessimismo. Ma forse proprio la guerra sta obbligando gli israeliani cementare una nuova unità e una nuova speranza. Oggi che è il compleanno di Israele tutti gli ebrei del mondo e i loro amici sentono nel cuore l’urgenza di augurare lunga vita allo Stato ebraico e, perché essa sia raggiunta concordia, fratellanza… e pazienza. Come si dice in ebraico: mazal tov, buona stella