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    Paul Auster e il cinema

    Senza voler diventare apocalittici, possiamo affermare con serenità che con la scomparsa di Paul Auster finisce l’era della grande narrazione americana degli ultimi decenni. Dopo Philip Roth, tanti altri e adesso Paul Auster è rimasto, forse, solo Don De Lillo a portare avanti le fila di un periodo o meglio di una generazione irripetibile, la più grande dopo quella della Beat Generation.
    Paul Auster nasce da una famiglia ebraica di origini polacche e austriache. Lui ha dichiarato “di essere ebreo ma da considerarsi ateo”. Ma la cultura ebraica correva nel suo sangue e la migliore testimonianza è il suo rapporto con la vera (ed unica) mitologia americana quella creata attraverso il cinema. Infatti Paul Auster è stato, più degli altri suoi colleghi già citati, oltre che romanziere, poeta e saggista anche sceneggiatore, regista, attore e produttore cinematografico. Paul Auster ha saputo applicare le teorie di Lacan meglio di chiunque altro: “Osserviamo il mondo attraverso i nostri sensi, ma il mondo che percepiamo è mediato nella nostra mente attraverso il linguaggio”. Ed ovviamente il linguaggio cinematografico non poteva che essere consono all’autore. “C’è una grande differenza tra le forme d’arte” diceva. “Il cinema è una delle varie possibili letture”.
    Nel 1993 Auster scrive il soggetto per il film “La musica del caso” tratto dal suo omonimo libro e firmato da Philip Haas, che segna l’incontro con un grande attore di origine ebraica come Mandy Patinkin, fortemente voluto dall’autore per la parte di uno dei due protagonisti.
    Ma il meglio per “il cinema di” Paul Auster arriva con il dittico “Smoke” e “Blue in the Face”. Nel primo diviene co-regista con Wayne Wang, scrive il suo secondo soggetto cinematografico e la sua prima sceneggiatura. Vincerà il prestigioso Indipendent Spirit Award per la sceneggiatura e la pellicola venne presentata al Festival di Berlino vincendo un Orso d’Argento.

    Tratto da un racconto di Auster, scritto per il New York Times nel 1990, dal titolo “Il racconto di Natale di Auggie Wren”, “Smoke”, è ambientato a Brooklyn con il tabaccaio Auggie Wren, che ogni mattina alla stessa ora, da più di dieci anni, fotografa lo stesso angolo di strada e lo scrittore Paul Benjamin, in crisi per la perdita della moglie uccisa durante una rapina. Nel film il racconto di Auggie vive due volte: la prima quando il tabaccaio interpretato da Harvey Keitel lo narra all’alter ego di Auster, lo scrittore interpretato da William Hurt, la seconda quando lo stesso racconto rivive nelle sole immagini, senza dialogo o parole, accompagnate dalla struggente canzone di Tom Waits “Innocent When You Dream”.
    “Smoke” è un tipo di cinema che può sembrare “superficiale” cosi come non indugia sui volti, non indaga gli spazi, non scava alla ricerca di qualcosa di più. “Smoke” è una serie di racconti d’ordinaria follia avvolti nel fumo che si innalza dalle sigarette che consumano in continuazione i due protagonisti il carismatico Keitel e il sobrio Hurt. Altro che superficialità.
    Il seguito di “Smoke” non tarda ad arrivare e si intitola “Blue In the Face”. Stessa struttura, osservazioni da entomologo, cast indovinato (sempre Keitel e con Michael J. Fox, Jim Jarmush, Lou Reed, Lily Tomlin e un cameo di Madonna) e una colonna sonora strepitosa. Paul Auster firma la regia con Wayne Wang e ovviamente la sceneggiatura.

    In seguito Auster ha girato ancora due film firmando la regia tutto solo, “Lulu on the bridge” del 1998 e nel 2007 “La vita interiore di Martin Frost” tratto dal suo romanzo “Il libro delle illusioni”. Quest’ultimo racchiude tutta l’estetica del suo autore che diventa linguaggio attraverso le immagini che riflettono la sua stessa esistenza. Interpretato da David Thewlis, già in “Naked” di Mike Leigh, ma ci sono anche Irène Jacob e Michael Imperioli con la voce narrante dello stesso Auster, è un racconto secco in cui “gli uomini cominciano a vivere appieno solo quando si trovano con le spalle al muro”.
    Paul Auster è uno di quegli scrittori che hanno capito il cinema e lo hanno amato; tra i suoi registi preferiti infatti figurano Jean Renoir, Robert Bresson ma anche William Wyler del “I migliori anni della nostra vita”, il grande Murnau e l’indiano Satjavit Ray, e ha saputo realizzarlo con pellicole dall’animo indipendente e (quasi) postmoderno. Come anche la sua prosa.

     

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