Quando si scrive un racconto si è costretti a scegliere una prospettiva. Il narratore scrive in prima persona, è interno o esterno alla storia, può essere onnisciente oppure descrivere gli eventi secondo un punto di vista…ognuno di noi è un individuo, è un mondo. Con il suo bagaglio di esperienze, il suo background e le influenze del suo contorno; con un passato ben definito ed un futuro in evoluzione. Un giorno, ho avuto la fortuna di essere catapultata in un gruppo di lezioni femminili mattutine, con una Rabbanit di origini romane, che insegna in Israele. Le partecipanti, con riservatezza, dovevano prenderne parte. Nulla doveva uscire, per rispetto, restare tra noi ciò che si era detto. Lo studio avrebbe avuto inizio, ma le nozioni apprese avrebbero continuato ad influenzare il quotidiano poiché gli spunti presi dalla Torah, non sarebbero rimasti limitati, ma ci avrebbero positivamente coinvolte. I sistemi di difesa creati negli anni da ognuno, ci permettono di sopravvivere, in qualche modo ci condizionano e limitano. Una delle cose più belle che ho imparato riguarda un metodo interpretativo utilizzato in psicologia: “modello Efrat”, in cui la seconda lettera ‘pei’, riguarda il modo in cui si interpreta la realtà (perush).
Se è capitata una circostanza oggettivamente sgradevole, può essere rivista ed interpretata, in un modo diverso e trasformarla, soggettivamente. Il primo passaggio è accettare le cose così come sono, senza giudizi.
È possibile riuscire a lavorare su sé stessi, allenandosi, affinché invece di dire per colpa di…si arrivi addirittura a dire grazie a! Non è semplice né immediato. Questo è un regalo: la possibilità di modificare la percezione della sofferenza, rispetto ad alcuni episodi del proprio vissuto. Quel che è stato, è reale, ne prendo atto, ma posso trovare una serenità interiore, senza lasciarmi influenzare negativamente. Si può iniziare da piccole cose, in cui si prova a visualizzare la migliore ipotesi possibili, per giudicare favorevolmente. La mia amica non mi ha salutata? Sicuramente non mi ha vista.
Un bambino piccolo piange disperato si getta a terra nell’autobus. La signora seduta vicina si lamenta della maleducazione del padre che non interviene per placarlo. Saprà dopo che al bambino è morta la mamma poco prima, questo il motivo della sua disperazione! E il suo risentimento si trasformerà in tristezza e compassione. Ecco!
Bisognerebbe fermarsi, riflettere prima di dare giudizi affrettati. E pensare che forse non è come istintivamente siamo portati a credere. Cambiando la prospettiva, si migliora. Si diventa più aperti agli altri, più comprensivi, più consapevoli, più pazienti. Gli occhiali magici sono quelli che ci permettono di vedere con un’altra prospettiva, avendo la Torah come linea guida: Tutto è volere di Hashem. Non bisogna piangere sul passato, che ci ha visti soffrire né lamentarsi. Bisogna accettare la condizione e rendere il dolore un trampolino di lancio da cui ripartire, per oltrepassare quella fossa in cui cadremmo, se continuassimo a pensare al dolore vissuto.
Si comincia con il mettere in discussione ogni affermazione. E sostituiremo il punto esclamativo, che caratterizza le nostre credenze, con un punto interrogativo. Questo metterà in discussione le nostre convinzioni, cambieranno i sentimenti percepiti.
Viene fuori da una riflessione la Torah degli specchi (Torat aMarot): vedo intorno a me ciò che sono io. Vedo deformato qualcosa che mi appartiene. Tutto ciò che ho visto nell’altro, che mi ha dato noia, o ha destato la mia suscettibilità, tira fuori una parte di me. Ciò che è emerso va considerato e ripulito. Se sono riuscito a vedere questo qualcosa, vuol dire che sono nella condizione di mettermi a disposizione per aiutare l’altro. Allora la coglierò come un’opportunità. Si inizia con l’autostima e l’accettazione di sé stessi. Giudicare favorevolmente, riguarda anche la propria persona. E se dobbiamo operare un lavoro di autocorrezione e pulizia lo faremo come un sassolino gettato nell’acqua. I cerchi concentrici si propagheranno. Tutto ciò che mi arreca fastidio, è come se mi facesse sentire sporco. Sentirsi “sporchi” può essere associato a ciò che ruota attorno alla teshuvà, intesa come pentimento: tornare sui propri passi per correggere un comportamento sbagliato e ripulirsi dall’aver commesso una qualche trasgressione. Nella Torah c’è tutto: la soluzione è stata creata prima del problema.