Sul terreno
Le operazioni sul terreno a Gaza nell’ultimo periodo non sono affatto cessate, ma hanno assunto un aspetto più vicino alla routine di una grande operazione di polizia che dà la caccia ai criminali e soprattutto ai loro capi, distrugge i loro rifugi, cerca di individuare i rapiti per liberarli prima che siano uccisi. E che al tempo stesso subisce ogni tanto gli agguati dei fuorilegge, anche nelle zone che erano state ripulite. È un gioco del gatto e del topo che per funzionare deve andare avanti a lungo. Lo stesso accade al Nord: ci sono scambi di colpi con Hezbollah, operazioni aeree in profondità, capi eliminati, ma nonostante gli allarmi le operazioni restano a questo livello e non si evolvono in guerra aperta.
Le trattative per un accordo sui rapiti
In questa condizione, prevale il livello politico dello scontro, dove Israele è letteralmente assediato dalla pressione congiunta di Qatar, Egitto e soprattutto degli Stati Uniti che vogliono un cessate il fuoco. Ogni giorno viene fuori una nuova versione di un accordo: due mesi di cessate il fuoco oppure tre settimane o forse un mese rinnovabile o per sempre; scarcerazione di tre terroristi condannati per ogni rapito, oppure 30 o addirittura 300; ritiro delle truppe israeliane da Gaza, o solo da certe zone, con o senza le ispezioni aeree; ritorno degli abitanti di Gaza nelle zone del nord o meno, e così via. Netanyahu continua a dire che liberare i rapiti è un obiettivo fondamentale, ma che ciò non può essere fatto a tutti i costi, che è necessario far sì che il 7 ottobre non possa ripetersi. Ma le voci continuano.
La politica americana contro il governo Netanyahu
La ragione di questa pressione è stata messa in chiaro da Thomas Friedman, l’editorialista del New York Times che è stato l’ascoltato consigliere antisraeliano di Obama e cerca di avere lo stesso ruolo con Biden: si tratta di “mettere l’asticella dell’accordo abbastanza in alto” da provocare l’implosione del governo di Netanyahu, magari attraverso l’uscita della destra di Smotrich e Ben Gvir e la loro sostituzione con Lapid, un cambio che dovrebbe preludere a nuove elezioni e alla liquidazione di Netanyahu e della destra. Dell’”asticella alta” fa parte anche la proposta paradossale di rispondere al 7 ottobre, una terribile aggressione terroristica proveniente da una forza palestinese come Hamas e approvata da tutte le altre e secondo i sondaggi anche dal pubblico, con l’approvazione di uno stato palestinese: un premio per il terrorismo e la garanzia della sua continuazione. Questa politica è evidente anche nella direttiva presidenziale con cui Biden ha deciso ieri sanzioni contro quattro esponenti delle comunità ebraiche in Giudea e Samaria colpevoli, secondo lui, di “aggressioni ai danni dei palestinesi” (ma evidentemente non giudicati come tali né dai tribunali né dall’amministrazione militare, visto che sono in libertà) e ha fatto trasparire che solo per un pelo non ha inserito nella lista Smotrich e Ben Gvir.
Le reazioni in Israele
Peccato per Biden e per i suoi alleati dentro la politica israeliana che l’elettorato di Israele non abbia dimenticato che il 7 ottobre è stato reso possibile innanzitutto delle politiche di conciliazione con i palestinesi promosse dalla sinistra (e da alcuni corpi separati dello stato, incluso lo Stato Maggiore) e che la maggioranza nei sondaggi si opponga alla chiusura anzitempo dell’operazione a Gaza. Ci sono le manifestazioni di alcune delle famiglie dei rapiti, che comprensibilmente chiedono di fare “qualunque cosa” per liberare i loro cari, ma vi sono anche quelle di altre famiglie di rapiti, di caduti in guerra e anche di riservisti, che invece si oppongono agli aiuti che finiscono in mano a Hamas e vogliono che la guerra continui fino alla vittoria, come dal canto suo ripete instancabilmente Netanyahu. E anche i sondaggi, che un paio di mesi fa facevano prevedere un rovesciamento del quadro politico, ora mostrano una sostanziale continuità con gli ultimi cicli elettorali. Insomma, nonostante la pressione americana e le voci che si susseguono, Israele continua a voler combattere i terroristi. Un compito che naturalmente dipende dalle Forze Armate.
Photo credit: Yair Sagi