Quando hanno bussato alla porta della sua casa, Ruth ha aperto e si è trovata davanti due uomini armati. In un attimo di distrazione è riuscita a scappare.
È rimasta nascosta per quattordici ore, senza capire quello che stava accadendo fuori.
Quando è stata liberata, i vicini di casa, sopravvissuti come lei al massacro, le hanno raccontato quello che era accaduto. E così Ruth è venuta a sapere che suo figlio Avshalom era stato assassinato e sette dei suoi famigliari, tra i quali la figlia, le nipoti, le bisnipoti e la nuora erano stati portati via.
Ha provato a chiamarli, il cellulare ha squillato a vuoto, fino a quando qualcuno ha risposto da Gaza.
Ruth Aran è nata quasi 88 anni fa a Bucarest, in Romania. Durante la seconda guerra mondiale, in fuga dai nazisti, è riuscita a salvarsi con la famiglia in Uzbekistan, dove è rimasta fino al 1945. Anno in cui suo padre è morto di tifo a Khishinev, in Moldavia.
“Tutto mi è ritornato addosso” dice Ruth, “ora la stessa cosa è successa a mio figlio Avshalom, hanno ucciso mio figlio, hanno preso la mia famiglia. Il trauma della mia infanzia è tornato”.
Ruth quando è scappata dai nazisti aveva la stessa età della nipote rapita da Hamas.
“È stata una Shoah: sventrare donne incinta, uccidere neonati non è Shoah? E se non è Shoah, è la cosa più simile a quello che è stato”.
“Non dimenticherò mai” dice Ruth, “ringraziando D-o non ho tanto da vivere, ma farò il possibile per ricordarmi di tutto questo”[1].
Difficile trovare le parole davanti alla gratitudine di Ruth per non avere ancora molto tempo da vivere e nonostante questo, al suo impegno a non dimenticare il pogrom dove è stato ucciso suo figlio, per il tempo che le resta.
Cosa significa per una sopravvissuta alla Shoah ricordare il 7 ottobre?
Cosa significa per una sopravvissuta al 7 ottobre ricordare il 27 gennaio?
Il 27 gennaio è diventato il giorno della memoria di un passato che non passa e che Ruth “non avrebbe mai immaginato di dover rivivere”. E che invece, con un salto di 85 anni, dalle foto in bianco e nero dei nazisti, è davanti ai nostri occhi, nei video delle gopro dei terroristi di Hamas,che hanno ripreso in diretta le violenze, le torture, i rapimenti, le uccisioni del 7 ottobre.
I fatti mentre ancora stavano accadendo erano già diventati testimonianza.
Ci sono momenti del tempo che si lasciano cogliere nell’attimo preciso in cui diventano un fatto storico. Mentre li si vive, si è consapevoli che sono una cesura e che dopo nulla sarà com’era e che da ora il tempo verrà misurato con il metro del prima e del poi. Questi momenti non hanno bisogno dell’invito ad essere ricordati perché non si dimenticano più.
Il 27 gennaio 2024 potrà essere uguale al 27 gennaio 2023?
Come stabilito dalla Legge, in questo giorno “sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole” per “conservare nel futuro” la memoria“di un oscuro periodo della storia. Affinché simili eventi non possano mai più accadere”.
Il 7 ottobre, tra le centinaia di morti, è stato assassinato anche un sopravvissuto alla Shoah.
Qualcosa non ha funzionato. Se gli “ultimi testimoni viventi” della Shoah, per anni andati nelle scuole a raccontare la loro storia e ad accompagnare le scolaresche nei viaggi della memoria, sono presi da sconforto.
Se abbiamo dovuto ascoltare l’inaccettabile paragone tra i soldati israeliani e i nazisti e se abbiamo assistito al rigurgito dei vecchi pregiudizi antigiudaici, che hanno alimentato nei secoli il clima di odio che ha prodotto le crociate, le inquisizioni, i ghetti, le cacciate, i rapimenti, le conversioni forzate, i massacri, i tentativi di sterminio degli ebrei.
Dopo la reazione israeliana contro Hamas, c’è stato un incremento del 500% di attacchi antisemiti nel mondo. Questa storia è entrata nelle nostre vite. Abbiamo resuscitato dai libri di storia, dove pensavamo di averla seppellita, la parola “pogrom”. Non ci sono altre parole per raccontare quello che è successo il 7 ottobre.
Le parole “never again” avevano un senso tranquillizzante. Ora la paura ha preso il posto della speranza che le cose sarebbero andate diversamente in futuro. Noi siamo testimoni di questo passaggio. Che succede se il corso della storia si inceppa e la storia ritorna su sé stessa?
Si è presi da vertigine temporale davanti ai “bambini del kindertransport” – operazione che tra il 1938 e il 1940 ha messo in salvo quasi 10.000 bambini – ora novantenni, che fanno un appello per “salvare i bambini, salvare il futuro, liberare gli ostaggi, oggi”.
In Israele vivono 140.000 sopravvissuti alla Shoah. Il 7 ottobre è stato un tremendo dejavù, che ha riportato molti di loro indietro nel tempo. Si sono riaperte ferite del passato e sono riemersi traumi che avevano provato a dimenticare.
I sopravvissuti si identificano con quello che è accaduto. Anche se la storia non è identica, sono gli stessi sopravvissuti a sottolineare che nonostante “la malvagità dei terroristi di Hamas è come quella dei nazisti, il pogrom è durato un giorno, mentre la Shoah anni. Oggi non ci sono camere a gas e forni crematori” ed “esiste lo Stato di Israele”.
Tuttavia qualcosa di quel passato è tornato attuale. Siamo stati costretti a ricordare, ma in una modalità diversa da quella a cui ci aveva abituato il giorno della memoria.
Siamo rimasti senza parole, davanti alle immagini del 7 ottobre, con “lo sguardo fisso, la bocca aperta e il viso rivolto al passato”, come l’angelo della storia di Benjamin, che “nella catena degli eventi vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine” e che “vorrebbe ricomporre l’infranto” ma è spinto “irresistibilmente nel futuro”.
Naftalì Furst, compare dodicenne in una foto della liberazione di Buchenwald. Tre anni fa è tornato in Germania, per l’inaugurazione di una mostra fotografica intitolata “Sopravvissuti”.
Il suo volto invecchiato era il ritratto della vita che aveva vissuto, nonostante la Shoah. Era riuscito ad andare avanti, l’essere un sopravvissuto non era stata una condanna a vita. Davanti alle foto di lui dodicenne e di lui ottantottenne, Naftalì Furst aveva chiosato “per me si chiude un cerchio”, non poteva sapere che sua nipote e il suo pronipote sarebbero stati tra i sopravvissuti alla strage dei bambini a Kfar Aza del 7 ottobre. Oggi novantunenne, Naftalì Furst, anche se si sente sopravvissuto due volte, a coloro che ora faticano ad aver speranza dice “che il tempo aiuta e che l’essere umano guarda al futuro”. Quest’anno terrò a mente le sue parole nel giorno della memoria.
[1]Dopo 50 giorni di prigionia, la figlia, le nipoti, le bisnipoti e la nuora di Ruth sono state rilasciate con il secondo gruppo di ostaggi. A Gaza è rimasto il marito della nipote, la figlia di Avshalom.
In copertina un disegno di un bambino di Terezin