La strage di 7 ottobre (che dovremmo imparare a chiamare con la data ebraica di Shemini‘atzèret e Simchàt Torà) con tutte le reazioni che ci sono state ha posto un serio interrogativo sul significato e sui rischi dell’imminente giorno della memoria del 27 gennaio 2024. Per avere qualche strumento in più in questa discussione è bene chiarire i termini e ricordare qualche dato dal punto di vista ebraico. La giornata del 27 gennaio è un’istituzione relativamente recente, decisa dal parlamento italiano in analogia con decisioni analoghe in altri paesi. Serve a ricordare la Shoah. Grazie a un notevole e benemerito impegno istituzionale e mediatico ha avuto un grande impatto sull’opinione pubblica, ha fatto conoscere e commuovere. D’altra parte, alcuni suoi difetti e rischi sono stati ampiamente analizzati (overdose, assuefazione, rigetto, banalizzazione, ecc.). E molto spesso, anche noi, travolti dalle emozioni e dalle manifestazioni di simpatia non ci siamo accorti dei rischi per noi.
La Shoah ha creato nei sopravvissuti e nei loro discendenti un enorme trauma. Tra le tante conseguenze, la necessità di conservare la memoria e di ritrovare un equilibrio. Le risposte personali e collettive sono state estremamente variate. E con il passare del tempo si è assistito a un continuo riadattamento delle risposte. Ciò che avveniva negli anni ’50 non è comparabile con i fenomeni degli anni ’80 e tantomeno con oggi. In questo arcobaleno mutante di risposte, va notato che la memoria della Shoah ha assunto per molti ebrei un ruolo identitario prevalente, se non sostitutivo di altri modelli, che fossero storici, nazionali, sociali o religiosi. Nell’intensità dei fenomeni, nella loro ripetitività diventata rituale, nella reazione emozionale che determinano, si possono scorgere i segni di una sorta di religione alternativa, la religione della Shoah, che come ogni religione istituzionale ha i suoi tempi, luoghi, testi sacri, riti e sacerdoti addetti, che si vanno aggiungendo e consolidando nel tempo. Il 27 gennaio è diventato il giorno sacro di questa religione.
In questo processo di rielaborazione c’è stata una ricostruzione in chiave del tutto diversa del tema della memoria, rispetto a come è stato vissuto dalla tradizione, ma anche dall’esperienza storica del popolo ebraico.
Nell’ebraismo la memoria ha un ruolo fondamentale. Ma bisogna vedere chi è che ricorda, che cosa ricorda e a quale scopo ricorda. Chi ricorda: non siamo solo noi ebrei o noi esseri umani che ricordiamo. Un giorno dell’anno nel nostro calendario, proprio il primo dell’anno, Rosh hashanà, è chiamato Yom hazikkaron, il giorno della memoria. Ma chi ricorda in quel giorno non siamo noi, ma Hashem al quale si chiede di ricordarci benevolmente, come sue creature. Poi c’è la memoria che dobbiamo tenere noi, e che riguarda eventi fondanti, lieti e tristi. Nel qiddush del venerdi sera dichiariamo di fare lo shabbat: 1. come zikkaron la ma’ase bereshit, ricordo della creazione, e 2. come zekher litziat Mitzraim, ricordo dell’uscita dall’Egitto, l’evento lieto e drammatico che ci ha fatto nascere come popolo libero e che non è solo il tema fondante di Pesach; insieme questi due ricordi sono il pilastro della nostra fede religiosa: ricordare e testimoniare a noi stessi e al mondo che Hashem è il creatore del mondo e che interviene nella storia.
Poi c’è il ricordo delle cose tristi finite bene, come a Chanukkà e Purim, in cui facciamo festa per celebrare la nostra liberazione. E infine il ricordo delle cose tristi e rimaste tali, per cui abbiamo una serie di riti come i digiuni in date stabilite. Che devono essere quelle e non altre perché non si può trasformare la vita in un lutto perenne. E qui il ricordo non è fine a se stesso e di semplice autoflagellazione, serve a riflettere sulle nostre responsabilità e a programmare tempi migliori basati sulla teshuvà. E poi c’è un’altra mitzwà specifica di memoria: “ricorda cosa ti ha fatto Amaleq” (Devarim.24:9). Amaleq è il nome di un nipote di Esav e del popolo da lui discendente, che mosse un attacco proditorio agli ebrei indifesi usciti dall’Egitto, e che in altre occasioni si presentò come nemico irriducibile di Israele. La Torà ordina di ricordarsi di cosa ci ha fatto Amaleq e subito dopo ordina di cancellare il ricordo di Amaleq. Sono due cose in apparente contraddizione che si risolvono spiegando che bisogna ricordarsi di distruggere fisicamente Amaleq. Nei millenni di storia questo precetto è stato stemperato: non sappiamo chi sia Amaleq oggi, non sappiamo chi abbia il diritto/dovere di distruggerlo (il re d’Israele, il popolo, il singolo?): ma è evidente che è un modo di fare memoria ben diverso da quello che comunemente si intende per memoria nel pacifismo imperante.
Tutto questo dimostra come, con tutto il rispetto per il 27 gennaio, il tema della memoria sia vissuto nella nostra tradizione in modi ben differenti e che il 27 gennaio non è esattamente una nostra ricorrenza. E spero che quello che potrebbe succedere questo anno in quel giorno non ce lo dimostri con spiacevole evidenza. Ed è un fatto che, appunto, dobbiamo ricordare bene.