Con l’Edict of the Badge (1218), Enrico III costrinse gli ebrei ad indossare un segno distintivo, imposizione che ha avuto le sue più recenti versioni sotto il dominio nazista. Nel 1290 Eduardo I espulse tutti gli ebrei dall’Inghilterra, i quali poterono rientrare sotto Oliver Cromwell, dal 1655. Verso il 1660 i mercanti di Londra tentarono, senza successo, di far revocare il provvedimento di rientro. Una mera questione di concorrenza, come è sempre stata.
Nella sua opera “Il Mercante di Venezia” (1596 circa) William Shakespeare fa dire a Shylock: “non ha occhi un giudeo? Un giudeo non ha mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni, non s’alimenta dello stesso cibo, non si ferisce con le stesse armi, non è soggetto agli stessi malanni, curato con le stesse medicine, estate e inverno non son caldi e freddi per un giudeo come per un cristiano? Se ci pungete, non facciamo sangue? Non moriamo se voi ci avvelenate? Dunque, se ci offendete e maltrattate, non dovremmo pensare a vendicarci? Se siamo uguali a voi per tutto il resto, vogliamo assomigliarvi pure in questo!”
Harold Bloom scrisse che “Bisognerebbe essere ciechi, sordi e ottusi per non accorgersi che la grandiosa ed equivoca commedia shakespeariana Il mercante di Venezia è un’opera profondamente antisemita” (Il Mercante di Venezia, Milano, 2012, a cura di G. Baldini). Un paradosso, perché, come sopra accennato, nel periodo in cui Shakespeare scrisse “Il Mercante di Venezia”, non vi erano ebrei in Inghilterra.
Vigeva un poco ovunque, laddove gli ebrei erano ammessi, l’obbligo di indossare un distintivo che consentisse di distinguerli dai cristiani. Evidentemente, se fossero stati così diversi dai cristiani, non ci sarebbe stato bisogno di imporre un segno che li differenziasse, una scelta che comporta l’ammissione che gli ebrei sono un popolo come gli altri, esattamente come fa dire Shakespeare a Shylock. Ne consegue che quando Sergio Luzzatto intitola la sua raccolta di saggi, preceduta da una Premessa ad hoc “Un popolo come gli altri – Gli ebrei, l’eccezione, la storia” (Donzelli, 2019, pp. 310, euro 19.50) se da un canto fa piacere che definisca gli ebrei come popolo e che ne proclami la sostanziale eguaglianza con gli altri popoli, lascia aperti degli interrogativi laddove scrive: “… a consegnare la totalità degli ebrei israeliani, mani e piedi legati, alla dominazione culturale degli ultraortodossi. I quali, da parte loro, si augurano proprio questo: che Israele non diventi mai uno Stato come gli altri, in quanto è lo Stato del Popolo eletto” (p. 20). Ora, se si deve diventare come gli altri, dobbiamo dedurne che per l’autore, ora come ora, non si sia come gli altri. Peccato che manchi una comparazione con la legislazione mediorientale, la quale è, invariabilmente, etnica e religiosa. Israele non è come gli altri, però, laddove vi sono dei partiti arabi, mentre alla maggior parte dei Paesi arabi si domanda: “dove sono i vostri ebrei?” Beninteso, se avessimo scritto delle inesattezze, saremmo ben lieti di ospitare la replica dell’autore, a condizione di reciprocità.