Un bilancio
necessario
Il 1° gennaio non è il capodanno per gli ebrei, che
lo festeggiano in autunno (anzi a rigore ne hanno quattro per funzioni
diverse). Quello di oggi è una ricorrenza di origine cristiana istituita
paradossalmente per festeggiare la circoncisione di Gesù (ma dal 1964 la
motivazione della festa è stata mutata dalla Chiesa cattolica, dedicandola a
Maria). In questa occasione c’è spesso un disagio, costituito nel trovarsi
immersi in un’atmosfera festiva che non ci appartiene. Quest’anno il disagio è
anche maggiore, perché la festa dell’Occidente cade nel mezzo di una guerra
durissima, con molti israeliani caduti, feriti,
rapiti, impegnati nel terribile sforzo della guerra. Si vorrebbe
ignorarlo, ma è difficile, anche perché la ricorrenza da religiosa è diventata
civile, comporta il cambio della data e insomma ci coinvolge che lo vogliamo o
no. Meglio dunque usarlo come un discrimine arbitrario, che invita a un bilancio
e a una riflessione, che sono comunque necessari oggi, a guerra avanzata.
La grande
divisione
Gli scorsi dodici mesi sono stati probabilmente i
più difficili nella storia di Israele, a partire dalla guerra di Indipendenza.
Il 29 dicembre del 2022 giurava il sesto governo Netanyahu, espressione della
maggioranza abbastanza netta emersa finalmente, dopo anni di stallo, dalle
elezioni del novembre precedente. Il 4 gennaio il ministro della giustizia
Yariv Levin dichiarava l’intenzione di promuovere una riforma della giustizia,
che ridimensionasse i poteri accumulati dalla Corte Suprema a partire dagli
anni Novanta, restituendo il predominio alle decisioni parlamentari. Tre giorni
dopo, il 7 gennaio, iniziavano le proteste di piazza su questo tema, che si sarebbero
ripetute ininterrottamente per nove mesi, suscitando poi manifestazioni opposte
a sostegno del governo. È stato il momento di maggior divisione interna nella
storia del paese, non solo con accuse verbali degli oppositori al governo di
progettare o di aver addirittura eseguito un colpo di stato, e con minacce di
guerra civile, ma con azioni pratiche molto pesanti, dall’assedio delle
abitazioni private dei ministri al tentativo di invadere il parlamento per
impedire il voto, fino al rifiuto di prestare servizio da parte dei riservisti
dell’aviazione. I tentativi di mediazione del presidente Herzog sono stati
respinti da tutt’e due le parti, alcune parti della riforma sono state
approvate dalla Knesset e subito portate alla valutazione della Corte Suprema,
che potrebbe decidere in merito nei prossimi giorni, riaccendendo lo scontro.
Il futuro
politico di Israele
La divisione è stata sospesa, ma non superata con la
terribile sorpresa del pogrom del 7 ottobre. In seguito alla strage perpetrata
da Hamas si è costituito un governo di unità nazionale, in cui assieme alla
vecchia maggioranza è entrato in posizione rilevante il partito centrista di
Benny Gantz, fortemente premiato per questa scelta dai sondaggi, ma non quello
più di sinistra di Yair Lapid, che è stato invece punito; ma non vi sono stati
invitati il partito nazionalista laico ma fortemente contrario a Netanyahu e
dei charedim di Lieberman, né la formazioni di estrema sinistra e arabe che
facevano parte del governo Bennett-Lapid, caduto nel 2022. Il paese si è unito
molto fortemente intorno alle forze armate che combattono una difficilissima
guerra su diversi fronti; ma tutti hanno chiaro che si tratta di una situazione
politicamente provvisoria e che i problemi sono ancora presenti sullo sfondo. Del
patto fra Netanyahu e Gantz fa parte la clausola che il governo di unità
nazionale non si occuperà se non della guerra, senza affrontare le questioni
che possono dividere né fare nuove nomine nelle alte cariche dello stato. Si
tratterà di vedere, quando l’emergenza sarà passata, come si riconfigurerà il
sistema politico israeliano. Ci dovrà essere un’inchiesta per accertare la
responsabilità del grande fallimento informativo e militare che ha permesso,
dopo una preparazione durata parecchi anni, a 3000 terroristi di invadere il
territorio nazionale senza quasi contrasto immediato, e di perpetrare i loro
orribili crimini. C’erano stati in precedenza degli allarmi, dei segnali, dei
militari del servizio di informazioni che avevano avvertito del pericolo; ma
questi segni non erano stati raccolti, e la possibilità stessa di un’invasione
di massa non era stata pianificata. Bisognerà accertare le responsabilità
professionali degli alti gradi delle forze armate e dei servizi e quelle
politiche dei governanti che hanno permesso a Hamas di essere finanziato e di
organizzare la strage. Ci saranno dimissioni ed elezioni, probabilmente un
grande rinnovamento della leadership.
Il destino di
Gaza
Prima di questo momento di autoanalisi e di
rinnovamento, Israele però deve affrontare la conduzione di una guerra che sarà
ancora molto lunga (Gantz ha detto “molti mesi”; Netanyahu ha parlato di tutto
il 2024) e continuerà ad essere molto difficile sia sul piano militare che su
quello politico. Bisognerà smantellare quel che resta di Hamas a Gaza, ma forse
prima decidere se accettare nuove tregue in cambio della liberazione di
qualcuno dei rapiti, se non di tutti. Verrà poi il momento di decidere che cosa
fare della Striscia, se e per quando gestirla in regime di occupazione militare
per eliminare la minaccia terrorista che certo non sparirà con la conquista
completa, se poi affidarla a un’Autorità Palestinese “rinnovata”, come
vorrebbero gli americani (ma Israele è fortemente contrario), o a un
protettorato internazionale, di cui bisognerà stabilire la fisionomia e la
composizione.
Hezbollah
Sarà anche molto difficile stabilire che cosa fare
al nord, minacciato dalle armi di Hezbollah, solo parzialmente utilizzate nella
guerra limitata condotta fino a oggi, ma sottoposto anche al fuoco proveniente
dalla Siria – entrambi guidati della regia economica e militare dell’Iran, che
tira le fila di tutto il terrorismo mediorientale, compreso quello degli Houti yemeniti,
di cui si dovrebbe occupare una alleanza internazionale. Saranno scelte molto
difficili, in particolare quella riguardo a Hezbollah. Israele vuole che
rispetti la risoluzione dell’Onu del 2006 e che si ritiri di una decina di
chilometri dal confine. Ma Hezbollah sembra indisponibile. Bisognerà obbligarlo
con le armi, entrando così in una seconda fase del conflitto, ancora più
difficile e pericolosa? E basterà questo, di fronte a una forza militare di
molte volte superiore a quella di Hamas, altrettanto fortificata nel suo
territorio e soprattutto altrettanto minacciosa per Israele?
Il quadro
internazionale
Durerà l’appoggio americano, che è stato
determinante nello scongiurare un’aggressione diretta dal Nord e nei
rifornimenti di munizioni che Israele non produce da solo, ma molto limitante
nell’impiego della forza a Gaza, imponendo molti vincoli e difficili problemi
operativi, forse anche perdite alle forze armate di Israele? Che accadrà con
un’eventuale vittoria di Trump? E che bisognerà fare con l’armamento atomico
dell’Iran che accumula uranio arricchito, missili, armi di tutti i tipi, ed è
sempre più aggressivo in tutto il Medio Oriente? Potrà l’opposizione all’Iran
far tenere quell’alleanza che silenziosamente ha tenuto fra Israele e paesi arabi
moderati, la cui distruzione è l’obiettivo politico primario dell’Iran e dei
suoi alleati? Che faranno Europa e Russia, entrambe coinvolte nella crisi
mediorientale? L’opinione pubblica internazionale continuerà a comprendere che
Israele si batte per la sua stessa sopravvivenza, contro il progetto di una
nuova Shoah? Insomma i problemi per i prossimi mesi sono tanti e
difficilissimi. Mai una leadership israeliana, dai tempi della Dichiarazione di
Indipendenza e della guerre successive, aveva avuto una simile responsabilità.
La speranza e la necessità e che vi si dimostri all’altezza.