Le istallazioni sotterranee
Il difficile e pericoloso lavoro dei soldati israeliani a
Gaza rivela sempre nuovi dettagli su come i terroristi hanno trasformato Gaza
in un’immensa fortificazione. Oltre alla grande galleria scoperta qualche
giorno fa (quattro chilometri di lunghezza nel nord della striscia fra Jabalia
e il valico di Erez con molte diramazioni, 50 metri di profondità, un’ampiezza
tale da consentire il passaggio di un’automobile; per intenderci come il
percorso della Linea B della metropolitana di Roma da Termini a Marconi), sono
state scoperte numerose altre istallazioni. Nei giorni scorsi è stata esplorata
la zona di Gaza City riservata agli uffici dei massimi dirigenti di Hamas; è
venuto fuori che ogni edificio era dotato di pozzi con scale a chiocciola o a
pioli, addirittura ascensori, che portavano nella rete sotterranea con numerose
gallerie che collegavano fra loro i palazzi del potere e portava più in basso
ai depositi d’armi, agli uffici e ai rifugi sotterranei. Vi erano porte
blindate per rendere difficile la penetrazione, mine, apparati di comunicazione
complessi, luoghi di comando e caserme sotterranee. L’esercito israeliano ha
messo filmati con visite virtuali e mappe di queste istallazioni. Ma
l’inventiva dei terroristi per produrre strumenti di morte è ricchissima.
Sempre nei giorni scorsi si sono trovati camion, che avevano l’aria innocua di
mezzi di trasporto commerciali, ma in realtà erano depositi di missili e
lanciarazzi. L’obiettivo più recente delle azioni delle forze armate di Israele
è Rafah, la città che sorge intorno al valico con l’Egitto. Essa non è stata
ancora presa ma è sottoposta all’attacco con bombe che esplodono in profondità
nel terreno, disabilitando almeno lo strato dei tunnel più vicino alla
superficie. Nel frattempo si è sparsa la notizia per cui il capo terrorista di
Gaza, Yahya Sinwar, sarebbe sfuggito ben due volte per pochissimo alle armi
israeliani durante la sua fuga nelle gallerie.
La risoluzione degli Emirati
Nel frattempo continua il lavoro diplomatico. C’è una
risoluzione presentata all’Onu da un gruppo di paesi arabi capeggiati dagli
Emirati che chiede la fine dell’offensiva israeliana, intorno a cui essi
lavorano da giorni. Non si tratta qui più di una tregua umanitaria ma della
chiusura totale dell’operazione. La risoluzione doveva essere votata lunedì,
poi è stata rinviata diverse volte per evitare il veto americano e adesso si
parla di un voto entro giovedì. Il lavoro diplomatico di Israele cerca di far sì
che la resistenza americana a queste risoluzioni continui. Gli Emirati hanno
anche minacciato di sospendere gli aiuti umanitari se i combattimenti non
finiranno. Secondo i paradossi della politica mediorientale, gli Emirati arabi
fanno parte degli “Accordi di Abramo”, sono in ottimi rapporti commerciali e
perfino turistici con Israele, temono l’Iran che è il loro potente e arrogante
dirimpettaio sul Golfo Persico, ma si sono dati un obiettivo politico – la
sospensione dei bombardamenti – che coincide proprio con quel che pretende
Hamas. Di fronte all’offerta israeliana di una settimana di tregua contro la
liberazione di quaranta rapiti (una proposta che è al rialzo rispetto alla
regola della tregua precedente, basata sull’equivalenza di dieci sequestrati
per un giorno di sospensione dell’azione israeliana), c’è stato un rifiuto
netto da parte dell’organizzazione terroristica che ha ribadito la
precondizione della fine dell’operazione a Gaza per iniziare a discutere degli
ostaggi. E dunque si continua a combattere. Netanyahu e Gantz, il ministro
della Difesa Gallant, il capo di stato maggiore Halevi, hanno tutti dichiarato
più volte negli ultimi giorni la determinazione di Israele a condurre
l’operazione fino in fondo, chiaramente sostenuta dall’opinione pubblica.
Una guerra dell’Iran
Per Israele è invece essenziale poter distruggere
completamente Hamas, anche perché quella iniziata il 7 ottobre non è una
semplice azione terrorista del gruppo, ma una tappa della guerra dell’Iran per
la distruzione di Israele. La leadership militare iraniana vede le attuali
operazioni di Hamas nella Striscia di Gaza come un preludio a una guerra a
lungo termine mirata a distruggere Israele. Non si tratta di un’opinione, ma di
dichiarazioni esplicite dei responsabili militari dell’Iran, come emerge ripetutamente
dal monitoraggio che diverse organizzazioni, innanzitutto il meritorio sito
MEMRI fanno dei media islamisti. Ad
esempio il generale Hossein Salami, comandante delle guardie rivoluzionarie
iraniana, che è il principale braccio armato del regime degli ayatollah, ha affermato nei giorni scorsi durante un
incontro dei comandanti provinciali che la resistenza palestinese si sta
esercitando e sta acquisendo l’esperienza necessaria nella “formula per
distruggere Israele”. Il ministro iraniano della Difesa e della Logistica
delle forze armate, generale Mohammad Reza Gharaei Ashtiani, ha affermato il 18
novembre che i fallimenti dell’esercito e dell’intelligence israeliani dal 7
ottobre forniscono lezioni per le future azioni contro lo stato ebraico. I comandanti
delle guardia rivoluzionarie avevano già presentato l’operazione di Hamas come
un preludio a futuri attacchi contro Israele. In un’intervista del 15 ottobre,
l’ex comandante delle guardie, il generale Mohammad Ali Jafari, ha descritto
l’attacco come un “allenamento” per preparare e addestrare le future operazioni
contro Israele. Salami aveva precedentemente delineato quella che vedeva come
la formula per distruggere Israele durante un’intervista nell’agosto 2022.
Salami ha sostenuto che gli Hezbollah libanesi e le milizie palestinesi devono
effettuare più operazioni di terra e combattimenti urbani all’interno di
Israele che destabilizzerebbero Israele e generare sfollamenti interni che
porteranno al collasso di Israele. Insomma, la partita non è contro un gruppo
terroristico relativamente isolato, ma contro uno schieramento che vede in quel
che sta succedendo una battaglia di una guerra che continuerà. Se questa
battaglia non fosse vinta completamente, altre ne seguirebbero presto,
soprattutto usando le forze di Hezbollah, che restano in attesa.