La fine della tregua e la politica internazionale
La guerra contro i terroristi a Gaza è ripresa
venerdì mattina, dopo la rottura della tregua da parte di Hamas, avvenuta nella
notte precedente. Israele ha atteso per attaccare le 7 di mattina, l’ora in cui
scadeva il cessate il fuoco, allo scopo di sottolineare che i combattimenti non
dipendevano da una sua scelta, ma dagli attacchi missilistici di Hamas: un
comportamento che riflette una scelta generale di sottolineare il rispetto
delle norme, degli accordi e del diritto internazionale, a differenza dei
fuorilegge di Gaza. Solo in seguito alla rottura sul campo, Netanyahu ha
ordinato al capo del Mossad, Davis Barnea, di abbandonare i negoziati su una
nuova tregua in Qatar. Questo modo molto
legalistico di agire ha un costo militare notevole, perché toglie all’esercito
l’iniziativa, la possibilità di sorprendere i nemici e in generale l’agilità
dell’azione. Certo esso non impressiona le piazze antisemite e i politici
nemici di Israele come la Russia, alcuni paesi musulmani alleati dell’Iran e
anche certi governi europei come quello spagnolo, quello belga e quello
irlandese, che fanno a gara a condannare Israele con qualunque pretesto. Ma è
concepito soprattutto per non allontanare gli amici, che vorrebbero vedere la
guerra finire presto ma non negano il diritto di Israele all’autodifesa. Fra
questi vi sono diversi paesi europei, fra cui l’Italia, la Germania, per certi
versi gli Stati Uniti, la cui amministrazione è fortemente divisa sul conflitto
mediorientale, ma in cui ha prevalso finora la corrente filo-israeliana.
Bisogna capire che anche la politica internazionale è una parte del teatro di
guerra.
La lentezza della liberazione di Gaza
La strategia delle forze armate di Israele anche per
questa ragione è stata finora estremamente prudente, cercando di colpire il
meno possibile i civili che pure in grande maggioranza continuano ad essere la
base politica convinta del terrorismo: i sondaggi hanno mostrato fra loro un
tasso vicino al 90% di approvazione per l’orribile strage del 7 ottobre, che è
stata coralmente festeggiata per strada con oltraggi alle vittime; la stessa
coralità vigliacca che si è vista nella messa in sena della liberazione dei
rapiti, dileggiati e minacciati di linciaggio dalle persone comuni convocate da
Hamas. Per tutelare l’incolumità di questi civili Israele ha preparato un
marchingegno mai utilizzato da alcun altro esercito: una sorta di applicazione
di allarme, una mappa interattiva consultabile dagli abitanti di Gaza che
divide la Striscia in un centinaio di piccoli settori, avvertendo
preventivamente chi vi si trova della possibilità di un assalto in quel luogo.
Anche questo sistema di allarme sottrae ai soldati israeliani la possibilità
della sorpresa e della manovra, strumenti fondamentali in guerra. Tale
difficoltà operativa è aumentata dalla grande prudenza che l’esercito ha deciso
di applicare nell’utilizzo della fanteria, per il timore di cadere nelle
trappole predisposte da Hamas, sostituendo spesso l’azione di terra con
bombardamenti aerei e di artiglieria per eliminare i rifugi terroristi. In
effetti i caduti israeliani sono stati relativamente pochi, per un’operazione
antiterroristica su un terreno urbano del genere; ma in cambio Hamas ha potuto
sottrarre molte forze alla distruzione, anche grazie alla rete dei tunnel in cui
esse possono nascondersi dagli attacchi aerei. Si è calcolato che le perdite
delle truppe di Hamas siano fra intorno al 10 o 15 per cento degli effettivi,
più altrettanti feriti. Sono stati eliminati molti quadri medio-alti, ma la
struttura di comando centrale è sostanzialmente intatta. L’esercito ha
recuperato solo una soldatessa rapita e quattro salme, su 240 rapiti: il che
significa che sostanzialmente i luoghi di prigionia dei terroristi sono rimasti
sconosciuti. In effetti poi l’avanzata israeliana è stata lentissima. Dopo
quasi due mesi di guerra l’esercito ha preso possesso di circa un terzo della
Striscia e Hamas ha ancora il controllo del territorio nella parte meridionale
e di buona parte della città di Gaza. Per capire che cosa ciò significa bisogna
tener conto che l’intera superficie di Gaza ammonta a 385 chilometri quadrati,
senza montagne, fitti boschi o particolari ostacoli naturali: si tratta di meno
di un terzo del territorio del Comune di Roma, che conta 1285 chilometri
quadrati.
La strategia della nuova fase della guerra
Questa strategia prudente e condizionata dal
contesto internazionale in senso giuridico, che certamente fa parte della
“concezione” bellica dello stato maggiore molto criticata in Israele, ha fatto
sì che le tappe della ripresa dei combattimenti fossero le stesse dell’inizio
dell’operazione, anche se di lunghezza più breve: prima un massiccio
bombardamento, in particolare della località meridionale della Striscia dove si
suppone possano essere fuggiti i capi di Hamas, la città di Khan Yunis e in
particolare il quartiere di Madinat Hamad. Poi l’avviso ai residenti di
spostarsi e oggi l’ingresso di truppe di terra a Khan Yunis, che è vicino al
punto strategico dove il confine israeliano con Gaza tocca quello egiziano. È
probabile che anche il seguito dell’operazione vada avanti nello stesso modo,
con lente avanzate di carri verso le roccaforti terroristiche, seguite
dall’intervento delle forze speciali e della fanteria. Questo modo di procedere
è certamente utile per eliminare le installazioni militari e governative di
Hamas, ma presenta diversi limiti. Il primo è che non costringe le forze
terroriste a venire allo scoperto e quindi riesce a liquidarle solo lentamente.
Il secondo limite connesso è che richiede molto tempo. Per liquidare i
terroristi da Gaza agendo in questa maniera ci vorrebbero ancora parecchie
settimane o alcuni mesi. Ma non è detto che Israele abbia questo tempo prima di
essere bloccato dal probabile veto degli Usa che sarebbe difficilmente
superabile, dato che essi controllano i rifornimenti militari, difendono con le
portaerei Israele da attacchi esterni e sono essenziali anche per bloccare
boicottaggi o rappresaglie internazionali. Il terzo limite è che questa
strategia lenta consente ai terroristi di vantare a livello propagandistico la
loro capacità di resistenza, di mobilitare l’opinione pubblica per i problemi
della popolazione di Gaza che inevitabilmente si accumulano, e di riprendere
l’iniziativa nel loro cinico gioco con i rapiti, forse in maniera ancora più
tragica di quel che si è visto finora. Infine una guerra prolungata apre lo
spazio ad altri interventi, che si tratti del fronte terroristico interno che
si è attivato anche prima della fine della tregua, di Hezbollah o della Siria
al confine settentrionale dove dopo venerdì sono ricominciati gli scambi di
colpi o direttamente dell’Iran. Quanto agli Houti, Israele ha iniziato l’altro
ieri a rispondere alla loro aggressività, facendo esplodere con un drone un
grosso deposito militare a San’a, la capitale dello Yemen. Insomma, il
gabinetto di guerra, più che lo Stato Maggiore, è chiamato a decisioni
strategiche difficili, che certamente rischiano di provocare conflitti
politici.