Nella parashà vengono elencati gli animali che sono cashère possono essere consumati e quelli che non lo sono. Dopo i mammiferi vengono elencati i pesci: “Fra tutti gli animali che vivono nell’acqua, potrete mangiare tutti quelli che hanno pinne e squame; ma non mangerete alcuno di quelli che non hanno pinne e squame” (Devarìm: 14: 9-10). Da notare che per quanto vi siano nomi per i mammiferi e per i volatili non vi sono nomi per i pesci. Anche nel libro del profeta Yonà (Giona, 2:1) si parla solo di un “dag” (pesce). A questo proposito R. Ya’akòv ben R. Ashèr (Colonia, 1269-1343, Toledo), l’autore dei Turìm, nel suo commento alla Torà scrive che Adàm diede nomi a tutti gli animali e ai volatili (Bereshìt, 2:19) ma non ai pesci.
Alcuni commentatori hanno preso spunto da questo passo della Torà per offrire commenti non letterali. Nello Zòhar(Bereshìt, 26b, e anche nello Zòhar Chadàsh, Tikkunìm, II, 71a) viene citato il versetto: “E un fiume esce da ‘Eden per irrigare il giardino e da li si separa in quattro rami” (Bereshìt, 2:10). I quattro rami sono i quattro modi di interpretare la Torà:peshàt (spiegazione semplice, esplicita),rèmez (interpretazione allegorica), deràsh(interpretazione derivata dall’uso comparativo delle parole del testo) e sod (interpretazione nascosta). [Dante nel Convivio, trattato secondo, capitolo primo, li chiama “litterale, allegorico, morale e anagogico”].
R. Mordechai Hakohen (Zefat, 1523-1598, Aleppo) in Siftè Kohèn (Parashà Sheminì) offre una spiegazione tipo deràsh. Al versetto che comanda di non mangiare alcuni animali acquatici, scrive: “La scrittura viene ad avvertire di non studiare Torà altro che da chi ha timore del Cielo ed è esperto nel Talmud e sa nuotare nel grande mare del Talmud […]. La Torà è paragonata all’acqua, perché cosi come non si può fare a meno dell’acqua, non si può fare a meno della Torà. E la parola senapìr (pinne) ha il valore numerico (ghematrià) della parola sèfer(libro) più il numero 60, come i sessanta trattati della Mishnà. E la parolakaskèsset (squame) insegna che il maestro deve essere una persona piena di buone azioni e di mitzvòt.
Anche R. Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) trae un insegnamento simile dai pesci. Nel Talmud (Kiddushìn, 29a) i maestri affermano che uno dei doveri del padre è di insegnare al figlio a nuotare nell’acqua. R. Elyashiv commenta che se lo scopo di imparare a nuotare è per il pericolo di affogare, ci sono tanti altri pericoli nel mondo. Se è così perché non insegnare al figlio a lottare e a usare la spada? Cosa si nasconde nell’affermazione che bisogna insegnare al figlio a nuotare? Non certo per insegnare a stare a galla; anche un pezzo di legno sta a galla! Un pezzo di legno sta a galla ma viene portato dalla corrente. Quando si dice di una persona che sa nuotare, si vuole dire che non solo sa stare a galla ma anche sa anche nuotare controcorrente. Gli israeliti “che nuotano nelle acque tra i gentili” non possono permettersi di farsi portare dalle onde. Il padre deve insegnare al figlio a nuotare controcorrente e di non aver paura delle “grandi acque”. R. Elyashiv cita il Midràsh (Bereshìt Rabbà, 97:3) dove è scritto che gli israeliti sono paragonati ai pesci, come disse Ya’akòv nella sua benedizione ai figli di Yosef, Efraim e Menasce “E si moltiplicheranno come pesci sulla terra” (Bereshìt, 48:16). I pesci puri hanno due segni di purità: pinne e squame. Le pinne alludono alla capacità di “nuotare” cioè di saper sopravvivere in ogni tempo e in ogni luogo, insegnando Torà ai figli. E le squame sono come la Torà e le mitzvòtche servono da protezione.