Kibbutz Be’eri – “Era il più bel kibbutz di Israele. Un angolo di paradiso. Eravamo la mecca del riciclo”. Tutto questo non esiste più. Rami Gold, che a 70 anni ogni giorno torna tra le macerie di casa, non ha nemmeno iniziato a pensare “cosa ne sarà di noi”.
“La sorella di mia moglie faceva parte di Women for Peace – un’organizzazione di donne israeliane e palestinesi che insieme lavorano sulla coesistenza, spiega -. Due volte alla settimana andavano al valico con Gaza per prendere i malati e portarli in auto negli ospedali israeliani per le cure. Ora è morta. Una donna di 70 anni. Per nessuna ragione”.
Sul volto schiacciato tra il casco di protezione, mentre le sue parole sono interrotte dai botti dei colpi di artiglieria – “ma sono i nostri”, assicura – il sudore intorno agli occhi maschera le lacrime. “Il 7 ottobre sono stato svegliato dagli allarmi per i razzi mentre ero a letto con mia moglie. Come al solito ci siamo fiondati nel rifugio. Ma tutti quei razzi erano fuori dal comune”.
Il ricordo è doloroso ma per Gold si è fatto missione e terapia. A 70 anni, nonostante sia un veterano della guerra del Kippur, è troppo vecchio per far parte della squadra della sicurezza del kibbutz. “Ma ho chiamato per sapere se potevo rendermi utile. Nessuna risposta. Dopo pochi minuti mi hanno chiamato loro. Sono uscito dal rifugio e mi sono reso conto che eravamo stati invasi da cento, duecento terroristi almeno”. Arrivati su convogli, “come l’Isis”, dice. Con fucili montati sui pick up, con cui sparavano a raffica mentre si facevano strada. “Ogni gruppo ha invaso una zona del kibbutz. Nell’asilo hanno allestito un posto di comando. Intanto – continua a ricordare Gold – entravano nelle case vuote, perché tutti erano corsi al riparo nei rifugi per l’allarme dei razzi. Bussavano alle porte dei mamad per fare uscire le persone. E di che quelli che restavano dentro, bruciavano le case”. Chi usciva per non soffocare tra le fiamme, invece, “veniva sottoposto a una selezione, chi doveva morire e chi vivere. Non c’era una logica. In ogni casa potevano ammazzare tutti o la metà, i giovani o gli anziani. Alcuni probabilmente sono stati portati a Gaza”, dice il sopravvissuto di Be’eri, sperando che siano ancora vivi.
Dieci persone hanno provato a far fronte a un centinaio di terroristi di Hamas bene armati. E sono tutti morti. I superstiti hanno resistito 12 ore prima che l’esercito arrivasse e iniziasse a mettere l’area in sicurezza. “Non ci dormo la notte, al pensiero che avrei potuto fare qualcosa di diverso”, dice Gold nell’unico momento il cui abbassa lo sguardo. I sopravvissuti del 7 ottobre sono tutti in cura perché, spiega, “soffriamo di vergogna e senso di colpa per non aver fatto abbastanza, pur sapendo che non avremmo potuto fare di più”. Ma c’è una grande differenza tra quello che dice il cuore e quello che pensa il cervello. Ecco perché il 70enne Rami Gold, dopo il trauma, continua a ripercorrere i peggiori momenti della sua vita. “Ho ancora nelle orecchie le grida delle persone che stavano morendo e chiedevano aiuto”, racconta. Testimonianza, terapia, espiazione. “Parlare con i media – spiega – è un modo, adesso, per fare di più. Perché voi possiate raccontare che il grande popolo di Israele e di Be’eri hanno fatto del loro meglio per sopravvivere”.
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