Col passare dei giorni, invece di farsi più chiaro il quadro si complica. L’eventualità, sempre più probabile, dell’apertura di un altro fronte a Nord, la tempistica di una lunga guerra combattuta dentro la Striscia di Gaza, il coinvolgimento delle super potenze, vengono descritti come possibili scenari. Intanto, via via che i corpi vengono riconosciuti, cresce il numero delle vittime e insieme la preoccupazione per gli ostaggi, ma in Israele, come in Israele, anche di fronte ai numeri e ai volti della tragedia, il morale è alto e non si sta con le mani in mano. Alla più banale delle domande «come stai?» segue quasi sempre la più ottimistica e forse incosciente delle risposte «Iye beseder, andrà bene». Tutti sono convinti che alla fine Israele vincerà la guerra contro Hamas, anche perché mettendo da parte i conflitti ideologici degli ultimi mesi, la società israeliana si è compattata e rimboccata le maniche per riempire il vuoto lasciato dalle istituzioni. Ma non solo. Israele vincerà perché una signora di 90 anni, da quando ha saputo che i soldati al Nord hanno freddo, ha abbandonato il sudoku, è andata a comprare la lana e ora lavora a maglia ininterrottamente per fare calze e berretti. Ma anche perché Oz Davidian, durante il sabato nero, ha messo in salvo da solo 120 partecipanti al rave di Re’im, facendo avanti indietro per quindici volte con il suo tender, e mettendo a repentaglio la sua vita. E anche perché il noto reporter della radio militare Rami Shenì, mandato subito sul campo a raccogliere notizie, ha fatto lo stesso, salvando decine di ragazzi. Anche lui disarmato, anche lui senza indugiare un attimo. Israele vincerà perché Rachel Adri, 65 anni, che è già passata alla Storia come Rachel di Ofakim, rimasta in ostaggio dei terroristi di Hamas per diciassette ore insieme a suo marito, ha raccontato di aver offerto tè e biscotti ai terroristi avendo salva la vita. «Mi ricordi mia madre» gli ha detto uno di loro e lei ha tirato un sospiro di sollievo, i suoi biscotti marocchini sono riusciti addirittura ad addolcire l’animo dei carnefici e a frenarne la furia omicida. Israele vincerà perché Hedia e i suoi figli, tutti musicisti, venerdì pomeriggio hanno imbracciato gli strumenti e hanno organizzato una kabalat shabat musicale in un albergo alle porte di Tel Aviv, che accoglie i sopravvissuti ai massacri del Sud. Canti e balli, così sfollati e volontari hanno accolto il sabato, poi i sorrisi hanno lasciato posto alle lacrime, ma dopo si è tornati a cantare. Israele vincerà perché alle immagini dei massacri, fanno da controcanto quelle dei matrimoni celebrati in quattro e quattr’otto nelle basi militari e al fronte, dove in alcuni casi sia lo sposo che la sposa sono in divisa. E soprattutto perché Israele è l’unico Paese al mondo dove quando scoppia una guerra, si organizzano voli di emergenza in ingresso e non in uscita, per riportare a casa da tutto il mondo israeliani che vogliono fare la loro parte. «Qui trasportiamo il dolore nella sacca delle gioie e tra i cespugli della rabbia crescono i fiori della consolazione» canticchia Sarit, 58 anni, mentre confeziona uno scatolone di calze per i militari, in uno dei centri di raccolta e smistamento che sono sorti in ogni città. «Sono parole del cantautore Yossi Banai, scritte più di vent’anni fa ma sempre attuali» aggiunge. Chiedo a Sarit qual è il sentimento collettivo di queste giornate di guerra. Alza lo sguardo dallo scatolone e mi guarda dritto negli occhi: «Pensi che ho tempo per queste chiacchere?» poi mi indica con la mano una catasta di cartoni: «lì ci sono le scatole e lì le calze, mettiti al lavoro, non abbiamo tempo da perdere».