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    I trent’anni degli accordi di Oslo. Un ricordo che ancora oggi divide Israele

    La stagione degli accordi e la sua fine

    Esattamente trent’anni fa, il 13 settembre 1993, alla Casa Bianca di Washington, fu firmato l’accordo fra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Erano presenti il presidente americano Bill Clinton, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, il leader dell’OLP Yasser Arafat e il ministro degli Esteri russo Andrey Kozirev. L’accordo (in realtà una dichiarazione di principio che sarebbe stata poi concretizzata da tre successivi documenti nei due anni che seguirono) era stato negoziato segretamente a Oslo per Israele da un gruppo guidato da Shimon Peres (Rabin fu informato tardi e rimase a lungo perplesso) e venne approvato alla Knesset il 23 settembre con un voto di fiducia che raggiunse una maggioranza risicatissima: 61 voti su 120. Il centrodestra laico e la maggior parte dei religiosi si opposero alla ratifica di questo e degli accordi successivi firmati nel 1995 e approvati in un quadro parlamentare molto confuso, caratterizzato da scissioni, forzature e accuse di corruzioni. Ma vi era da parte della sinistra la convinzione di poter ottenere con quegli accordi il risultato storico della pace col mondo arabo: erano avanzate anche le trattative con Assad per una rinuncia israeliana al Golan in cambio di un trattato con la Siria. Questo momento di apertura negoziale si chiuse rapidamente, ma non tanto come si usa dire per l’omicidio di Rabin avvenuto il 4 novembre 1995 (giacché Rabin continuava ad avere forti perplessità sulla volontà araba di pace, come dichiarò nel suo ultimo discorso parlamentare) quanto per il fatto che il terrorismo palestinese non era affatto cessato con gli accordi, ma anzi era entrato in una nuova violentissima fase di omicidi di massa, come furono per esempio la strage della stazione degli autobus di Afula (6 aprile 1994, 8 vittime e 55 feriti), quella di Hedera una settimana dopo (6 uccisi e 30 feriti), di Via Dizenghof nel centro di Tel Aviv (19 ottobre 1994, 32 morti), l’attentato di Beit Lid (22 gennaio 1995, 22 assassinati) e tanti altri episodi omicidi a partire dai giorni stessi della ratifica di Oslo. Al pubblico israeliano quei crimini non bloccati né denunciati dalla dirigenza palestinese apparvero prove evidenti del doppio gioco dell’OLP, o almeno del fatto che la strategia della cessione di “territori in cambio di pace” non funzionava. E infatti nelle elezioni del 29 maggio 1996, nonostante il cordoglio per Rabin, Bibi Netanyahu sconfisse Shimon Peres che era stato il vero architetto degli accordi e proponeva di continuarli. Dopo d’allora, nonostante l’appoggio americano ed europeo, e alcuni lunghi cicli di trattative, i palestinesi non hanno fatto più passi verso la pace e si sono resi in sostanza protagonisti solo di svariate ondate terroriste; Israele ha invece negli ultimi anni costruito rapporti fruttuosi con diversi paesi arabi e musulmani, rompendo così e non con le trattative con i palestinesi, l’isolamento regionale di un tempo.

     

    Attualità

    Vale la pena di ricordare questo anniversario non solo perché si tratta del più importante e controverso atto di politica internazionale mai intrapreso da Israele, ma anche perché esso costituisce una svolta nella politica israeliana che oggi è tornata in discussione. Alcuni dei protagonisti sono ancora presenti, Netanyahu innanzitutto ma anche Ehud Barak, che allora era capo di stato maggiore delle forze armate israeliane ed era come lui contrario agli accordi di Oslo, ma oggi è fra i principali ispiratori delle proteste contro Bibi; e c’è anche Aryeh Deri, allora come oggi a capo di Shaas, il partito religioso sefardita. Il presidente attuale di Israele, Yitzhak Herzog è il figlio di Chaim Herzog, che era presidente allora; Yair Lapid, leader dell’opposizione, è figlio di Tommy Lapid, che negli anni ‘90 era un personaggio televisivo importante e aderì al movimento laico Shinui, al tempo strettamente alleato di Meretz, il partito di sinistra che più di tutti appoggiava gli accordi.

     

    Un momento politicamente decisivo

    Ma la ragione principale dell’attualità di questo anniversario è politica. Il governo Rabin/Peres fu l’ultimo momento di vera forza dello schieramento sociale basato sull’alleanza (quasi un’identità) fra il movimento di kibbutz, la centrale sindacale unica Histadrut e il movimento laburista, che aveva fondato e retto Israele fino agli anni Settanta. Questo schieramento. già messo in crisi alla fine degli anni 70 dalla problematica gestione della guerra del Kippur e dal fallimento della sua politica economica socialista, che aveva provocato una durissima iperinflazione, aveva scelto allora di caratterizzarsi progressivamente come “il campo della pace”, subendo però il freno dell’alternanza di governo con la destra. Oslo fu la grande scommessa di questa nuova identità della sinistra israeliana. Contemporaneamente a livello giuridico si sviluppava l’attivismo della Corte Suprema che con la presidenza di Aharon Barak si prese il compito di garantire anche contro le scelte dell’elettorato lo spirito originario, cioè laburista del paese, dandosi anche senza base legislativa alcuna il diritto di intervenire nelle scelte parlamentari e governative, per esempio annullando leggi, nomine e regolamenti che trovava “irragionevoli”. 

     

    Dopo quel momento per trent’anni non vi è più stata più una maggioranza politica di sinistra nel Paese, anche se Ehud Barak nel 1999 divenne primo ministro di un governo molto composito in cui erano determinanti i partiti religiosi, che durò solo un anno e mezzo, cadendo anch’esso sul fallimento dei negoziati con i palestinesi. Oggi per la prima volta il blocco sociale che scommise la propria identità e perse trent’anni fa a Oslo, appare in grado di riproporre un’egemonia. Al di là delle etichette, non si tratta più di un movimento socialista: come in tutto il mondo anche in Israele i ceti popolari sono piuttosto orientati a destra e nel movimento antigovernativo confluiscono piuttosto le élites economiche e professionali; ma esso si caratterizza innanzitutto come la difesa di quel nucleo giudiziario e burocratico guidato dalla corte suprema che conserva le posizioni ideologiche del passato. È poi prevalentemente askenazita, laico e spesso violentemente antireligioso, fortemente influenzato da quel che resta del “campo della pace”, opposto quindi tanto ai sionisti religiosi che ai charedim, ardentemente voglioso di rivincita contro quel Bibi Netanyahu che sconfisse la sinistra nel ‘96 ed è stato poi la guida del blocco di centrodestra (aperto a religiosi, nazionalisti, liberisti) che ha guidato Israele con grande successo negli ultimi vent’anni e più. Ricordare Oslo e i conflitti che provocò allora può dunque anche servire a capire meglio quel che accade in Israele in questi mesi.

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