Una delle mete più popolari e belle del Mediterraneo, l’arcipelago spagnolo delle Baleari, è anche un luogo importante e molto particolare di memoria ebraica. L’insediamento ebraico nelle isole è certamente molto antico, risale al tempo dei Romani e prima dei Fenici. Ma l’episodio più lontano documentato risale al 417-18 della nostra epoca, quando forse per la prima volta in Occidente, gli ebrei di Minorca furono costretti a una conversione di massa in seguito alla traslazione delle pretese reliquie del protomartire cristiano Stefano, come ha ricostruito Carlo Ginzburg in un capitolo del suo libro Il filo e le tracce. Da allora non vi fu più una comunità ebraica sulla seconda isola dell’arcipelago, ma sull’isola maggiore, Maiorca, gli ebrei prosperarono nonostante i cambi politici dai Romani ai Vandali ai Musulmani, che tennero l’arcipelago per quasi sei secoli, agli Aragonesi. La popolazione ebraica era piuttosto numerosa, sparsa in tutte le città dell’isola e in particolare nella capitale Palma abitava un quartiere a due passi dalla cattedrale, con una grande sinagoga centrale sulle cui rovine fu fondata nel 1570 una chiesa gesuita ancora esistente intitolata, certo non per caso, al Monte Sion.
Sembra che gli ebrei nascosti sopravvissuti alle persecuzioni chiamassero il muro laterale della chiesa “Maior-Kotel”, con un gioco di parole fra il nome dell’isola e il Muro occidentale del Monte del Tempio, e che avessero il costume di sfiorare gli stipiti di una porta murata che ancora si vede in corrispondenza dell’ingresso della vecchia sinagoga. Essa era stata confiscata alla comunità ebraica “como acto de castigo” nel 1315, meno di un secolo dopo la riconquista cristiana, e poi distrutta. Gli ebrei maiorchini erano comunque numerosi e influenti. Fra essi si sviluppò il più importante laboratorio di cartografia marina del medioevo, con Abraham Cresques, autore del meraviglioso “Atlante Catalano” (1375), che oggi si può vedere alla Biblioteca nazionale francese. Dal 1290 gli ebrei erano obbligati a vivere in un quartiere chiamato “Call Major” (forse un calco da Kahal, comunità) con alcune vie che ancora oggi esistono (Carrer del Sol, Monti-Sion e Seminari Vell, Na Dragona), circondato da un muro con porte che si chiudevano tutte le notti, secondo il modello che poi si sarebbe imposto a Venezia e a Roma. Nonostante questa reclusione, nel 1391 cominciarono violente persecuzioni, che portarono nel 1435 alla conversione forzata di tutta la comunità. Ma gli ebrei di Palma continuarono a mantenere identità e fede, sicché nel 1492, momento della cacciata dalla Spagna, ne furono inquisiti quasi 559 (sui 25 mila abitanti della città in quegli anni) e poi ancora un migliaio fino al 1544, di cui 82 furono bruciati vivi. Vi fu poi un secondo momento di acuta persecuzione, con molte terribili esecuzioni capitali, fra il 1673 e il 1695, ricordata ancora oggi come Cremadissa (Il rogo). Una delle conseguenze di queste condanne dell’Inquisizione fu l’individuazione di 15 famiglie come irriducibilmente ebraiche, benché battezzate da generazioni. Furono chiamati chueta o xueta (pronunciato ciueta), un nome che forse deriva dal catalano“jueu”, ebreo, ma fu interpretato per odio come allusione alla salsiccia (xua) di maiale. Queste famiglie, che oggi hanno circa 20 mila discendenti nell’isola, furono per cinque secoli (fino al 1960 circa) escluse da ogni carica pubblica o ruolo religioso, obbligati a sposarsi solo fra di loro, oggetto di disprezzo e di pesantissime discriminazioni sociali ed economiche; ma continuarono spesso a praticare alcune regole alimentari e costumi ebraici. Oggi i chuetas non sono più perseguitati né isolati e una parte di loro è ritornata con passione alla religione dei padri. Vi è una comunità ebraica ortodossa che funziona regolarmente (https://www.cjib.es/) con un rabbino proveniente dall’isola (Nissan Ben Abraham) e anche un’agenzia che organizza per chi sia interessato visite e incontri (https://jewishmajorca.com/).