Come l’autore de “I promessi sposi” lasciò in negozio il giovane Marco Coen
Da buoni ebrei italiani siamo abituati per convinzione, tradizione e forse anche convenzione a coltivare con il necessario e particolare orgoglio le memorie del Risorgimento. I nostri garibaldini all’impresa dei Mille, il segretario particolare del conte di Cavour, gli imprenditori, il capitano che a cannonate aprì la breccia di Porta Pia. Sta arrivando inoltre nelle sale il film dedicato al bambino ebreo che fu l’ultima vittima -1858- della Controriforma nella città di Bologna, e poi a Roma ancora sotto il dominio del Papa Re. Ultimo battesimo imposto e ufficializzato d’autorità, in attesa di quelli volontariamente sollecitati nella speranza di sottrarsi alle leggi razziste del 1938. Esisteva però una scia lunga di conversioni al cristianesimo, quello cattolico e talora anche quello evangelico-protestante. Certo non numerose, dovute forse a ragioni intime che non si possono certo indagare ma effettuate comunque nella tranquilla certezza di vantaggi sociali, di avanzamenti in carriera, di libere professioni esercitate con maggior profitto. Marx, Disraeli, Mendelssohn: per non citare che i più celebri. Alessandro Manzoni morì il 22 maggio di 150 anni or sono, senatore per fama e chiari meriti del Regno d’Italia che aveva da poco coronato sui Sette Colli la lenta conquista dell’unità nazionale. Manzoni era stato suocero di Massimo D’Azeglio, il quale alla vigilia della Prima guerra dell’indipendenza italiana aveva pubblicato il celebre pamphlet per l’emancipazione civile degli ebrei. Come già in tanti scrittori ed intellettuali il “problema israelitico” davvero non poteva risultargli estraneo. Lo vede però sotto il profilo della religione che ritiene la sola vera e definitiva, al punto che nelle “Osservazioni sulla morale cattolica” (1819) aveva scritto in prefazione: “ogni corruttela viene anzi dal trasgredirla, dal non conoscerla, o dall’interpretarla alla rovescia”, e quindi anche intolleranza e persecuzioni. Manzoni seguì due uscite dalla fede e dalla condizione ebraiche. Una di striscio, per così dire, quella del mantovano David Aron Norsa. L’altra invece la conosciamo grazie ad un interessante intervento epistolare del 7 settembre 1842. Si tratta di Marco Coen, primogenito di un’importante famiglia veneziana. Non più giovanissimo inclina verso la religione dei molti, lasciando quella di pochi. E’ opportuno premettere una nota strettamente letteraria, pertinente alle successive stesure del romanzo manzoniano. Renzo Tramaglino era ancora il Fermo Spolino del Fermo e Lucia (1821-1823), che rimase inedito fino agli ultimi anni dell’Ottocento. Lo scrittore fa muovere il protagonista in un mondo di personaggi che parlano in presa diretta. Così, nell’osteria dove si ferma a mangiare dopo la fuga precipitosa da Milano, Fermo ascolta queste parole di un mercante che racconta il tumulto di San Martino: “…v’era bene pochi diavoli in carne, che per far chiasso e baldoria, avrebbero dato fuoco anche al paradiso; ma quando videro che tutti gli altri, non erano ebrei com’essi; dovettero tacere.” (Fermo e Lucia, Tomo III, Cap. VIII). Il passo acquista un tono leggermente diverso nella edizione iniziale dei “Promessi sposi” (Capitolo XVI, Tomo II, 1827), e non viene modificato per il Capitolo XVI nell’edizione definitiva del 1840. E qui è Renzo che ascolta: “…bisognava vedere che canaglia, che facce: figuratevi che son passati davanti alla mia bottega: facce che… i giudei della Via Crucis non ci son per nulla…”. Risciacquando i panni in Arno, locuzione che tutti abbiamo imparato a scuola, per l’edizione definitiva del 1840 Manzoni lascia inalterato il testo che aveva scritto nel ’27. Ma torniamo a Marco Coen. Ci restano quattro lettere di Manzoni. Due sono di cortesia, e altre due sono rilevanti per ragioni tra loro diverse. Manzoni si occupava con interesse e profitto della sua tenuta di Brusuglio. Oggi esiste ancora la splendida villa, all’epoca circondata da molte decine di ettari coltivati con tecniche innovative. Così quando Coen gli scrive da Venezia per averne incoraggiamenti e consigli circa la propria intenzione di dedicarsi alla letteratura, Manzoni risponde che farebbe meglio a non deludere il padre e assumere prontamente la guida della florida attività commerciale di famiglia. Dunque ecco la replica, con la data del 2 giugno 1834, molto tagliente, molto manzoniana e molto pratica: ovvero che “il mondo sarebbe più impacciato nel trovarsi senza mercanti, piuttosto che senza poeti”. Il 7 settembre 1842 invece un’ultima missiva in casa Coen esprime compiacimento per il desiderio strettamente personale, isolato, di battezzarsi nella fede cattolica. Qui di ironia non ce ne sta, e anzi dobbiamo constatare pur nei toni apologetici una forte sensibilità per i valori più intimi, e per la tradizione ebraica che ne fa il centro dell’esistenza individuale. “Chi sa che Lei non sia il primo chiamato in una famiglia, sulla quale il Signore voglia estendere la Sua misericordia?”, scrive Manzoni. E aggiunge che Marco dovrà comportarsi da “figlio più tenero, più rispettoso, più sommesso che mai” e sempre “far vedere che non antepone all’autorità paterna, se non quella che n’è l’origine e la consacrazione.”.