Rimasti orfani della famiglia gerosolomitana Shitsel, Netflix ha proposto ai suoi abbonati un’altra storia chassidica, ambientata questa volta nel distretto dei diamanti di Anversa. Fin qui nulla da eccepire, gli ebrei ortodossi evidentemente fanno audience, forse dovuta all’aria di mistero che li circonda, se non che la trama alle volte sembra essere un copia e incolla di qualcosa molto familiare: Il padrino. Il capolavoro di Francis Ford Coppola esce nel 1972 e quindi nessuno si aspetta che a distanza di più di 50 anni qualcuno possa veramente ricordarsi la storia nei minimi dettagli, ma le analogie sono talmente evidenti che non possono essere ignorate.
La storia di Noah, il figliol prodigo, somiglia incredibilmente a quella di Micheal Corleone, interpretato all’epoca da un giovanissimo Al Pacino. Stretto dalla vita ortodossa, Noah emigra a Londra per poi tornare ad Aversa per il funerale del fratello suicida, Yanki, proprio quando la famiglia, titolare di una ditta che commercia diamanti all’ingrosso da qui il titolo originale “Gross Diamonds”, versa in difficoltà economiche. Nel Padrino, all’inizio Micheal non vuole avere a che fare con gli affari dei Corleone e si arruola per combattere nella Seconda guerra mondiale contro il volere del padre.
Ad Anversa Noah ritrova Eli, la fotocopia psicologica di Fredo con tanto di peot, cappello di pelliccia e calze di seta bianche, il fratello debole che ha la stigma del traditore. Ma soprattutto rincontra Ghila, l’amore di gioventù che ha lasciato sull’altare, vedova del fratello suicida, mai dimenticata, come ne “Il Padrino” Michael non ha mai dimenticato Kate interpretata all’epoca da Diane Keaton. Entrambi Noah/Micheal sono vedovi della prima moglie. Non manca una sorella, Adina, che è l’unica a non ricalcare Conny Corleone, ma che è una donna intraprendente e la più intelligente di tutti i figli. Il vecchio padre, capostipite, viene invece tenuto all’oscuro degli affari loschi della famiglia.
La storia si svolge nel distretto dei diamanti tra le famiglie ebraiche ortodosse descritto come una sorta di cupola mafiosa dove nessun estraneo riesce a ficcare il naso, nemmeno la goffa procuratrice che cerca di incastrare Eli o chiunque possa rivelarle qualcosa sui traffici illegali con gli albanesi. Rispetto al Padrino e al suono dell’italoamericano, l’originale olandese è sicuramente meno affascinante, ci sono sicuramente meno morti, meno sparatorie, meno sangue ma molte più lacrime, più sudore e più parrucche.
A parte le apparenze, però, il succo è sempre lo stesso: la famiglia chassica, è tutto tranne che santa, e nei giorni di Rosh Hashanà e di Kippur cerca di mettere a segno il colpo della vita con un montaggio copiato in tutto e per tutto da quello del finale del Padrino parte I, una sequenza alternata tra preghiere in ebraico al tempio e irruzioni e arresti della polizia, come al battesimo del nipote Micheal recitava in latino la formula, mentre i suoi sicari uccidevano i traditori a colpi di mitra.
E anche la storia di Noah e Ghila, tra tira e molla, sembra veramente quella di Kate e Micheal. Se Netflix proporrà una seconda serie, potrà anche darsi che Noah, tanto per parafrasare Francis Ford Coppola, deciderà pure di “andare ai materassi”.