“Per noi è meglio servire l’Egitto che morire nel deserto” (Shemot 14:12). Questa era la voce di protesta che si alzò da qualcuno del popolo contro Mosè, in un momento di grave crisi, appena usciti dall’Egitto, con l’esercito del Faraone alle spalle e il mare davanti che sembrava una barriera invalicabile. In quel momento bisognava scegliere tra la schiavitù e la libertà, tra una situazione sicura di fatica, umiliazione e abbrutimento e una speranza dubbia di libertà e dignità. Si trattava di mettere in discussione un mondo e un modo di vivere, in vista di traguardi migliori; una scelta che non era solo quella degli schiavi di allora appena liberati, ma è un dilemma quasi quotidiano per chiunque, tirato da una parte e dall’altra da abitudini, messaggi seducenti, convenzioni sociali. La storia di Pesach è proprio questa, ricordare che se siamo qui, come siamo oggi, una scelta radicale è stata fatta o forse imposta ai nostri antenati. Anche se faceva comodo servire il Faraone. Tutto quello che facciamo a Pesach, con l’attenzione ai minimi dettagli, serve a ricordarci le cose come erano e come dovrebbero essere; le amarezze dei lavori forzati e delle costruzioni edili, la religione dei padroni che rispettava gli animali ma riduceva in schiavitù le persone, il pane che era buono e morbido, ma a caro prezzo, non tanto economico quanto di dignità, e che fu sostituito da un impasto duro da masticare ma adatto a tempi lunghi in aree inospitali. È faticoso e rischioso cambiare le nostre abitudini e le nostre idee, ma essere ebrei significa anche non essere soddisfatti, non fermarsi mai, e cercare sempre di crescere spiritualmente e liberarsi.
Pesach sameach wekasher.