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    Perché l’ondata terrorista in Israele si è aggravata

    Gli attentati e le reazioni

    E’ stato il più grave attentato
    da parecchio tempo: sabato sera a Neve Yaakov, un sobborgo di Gerusalemme,  un terrorista palestinese ha ucciso sette
    persone all’ingresso della sinagoga dove andavano a pregare; poche ore dopo
    alla “città di Davide”, sempre a Gerusalemme, un altro terrorista, di appena 13
    anni, ha ferito gravemente un padre e un figlio ebrei. Successivamente vi sono
    stati altri attentati per fortuna sventati in tutto il territorio di Israele,
    dal Golan a Gerico, dal Monte Hebron al Kfar Tapuah vicino ad Ariel. Dagli
    stati occidentali e in particolare dall’Italia, ma anche da paesi arabi come
    gli Emirati, la Giordania, perfino l’Arabia sono arrivate numerose
    dichiarazioni di solidarietà a Israele; al contrario tutte le fazioni
    palestiniste hanno manifestato gioia e esultanza per gli omicidi: un
    sentimento, va detto, che è stato vistosamente condiviso, con danze e canti,
    fuochi d’artificio, offerte pubbliche di dolci ai passanti, sfilate in cui si
    ostentavano le armi in tutti i centri dove la popolazione araba è numerosa,
    perfino in alcuni sobborghi di Gerusalemme. E un atteggiamento che conferma
    l’impossibilità di un progetto di pace con questi leader (e forse anche con
    questo pubblico, profondamente imbevuto di odio). Bisogna notare inoltre che ha
    fatto scandalo la presenza di bandiere palestinesi alle manifestazioni
    dell’opposizione di sinistra contro il governo israeliano, sabato sera a Tel
    Aviv e a Haifa. Uno dei problemi di Israele è che in certi ambienti l’odio
    contro Netanyahu sembra più importante della condanna del terrorismo.

    Perché le stragi

    L’orrore e la deplorazione per la
    strage sono ovvie e istintive; ma c’è bisogno anche di capirne le cause e
    analizzarne le dinamiche. La prima cosa da notare è che questi attentati
    rispondono a una pura logica terrorista, non strategica. Non sono stati colpiti
    obiettivi economici o militari e neppure simbolici. Gli assassinati non erano
    combattenti né politici. I terroristi hanno sparato a gente qualunque, che non
    conoscevano, di cui ignoravano i ruoli, solo perché ebrei: una logica analoga alle
    stragi naziste. Non possono certo sperare in questo modo di indebolire la forza
    di Israele, e neppure di terrorizzare la sua popolazione che resiste alle
    carneficine arabe da ben prima della fondazione dello stato ebraico. In altri
    termini, non vi è un progetto razionale che finalizzi questi orribili attentati
    (e la anche morte assai probabile di chi li compie) al progetto strategico dei
    palestinisti, cioè la distruzione dello Stato di Israele e l’instaurazione al
    suo posto di un regime islamista o nazionalista. Essi sono in primo luogo
    espressione di un odio antisemita violentissimo che si vede anche nella gioia
    selvaggia dei sostenitori del terrorismo. Ma vi è certamente di più, vi sono
    progetti politici e personali più limitati ma altrettanto velenosi.

    L’interesse personale

    Una prima ragione è biecamente
    personale. L’autorità palestinese spende più di mezzo miliardo di euro l’anno,
    circa il 15 % del suo bilancio, per pagare stipendi ai terroristi condannati e
    alle famiglie dei defunti. Un condannato per omicidio prende almeno 3000 euro
    al mese di stipendio o lo lascia in eredità alla famiglia se cade durante il
    suo crimine. Da quelle parti sono somme rilevanti, che fanno del terrorismo la
    carriera meglio pagata dello “stato di Palestina”. Inoltre il nome dei
    terroristi viene celebrato e ogni problema economico o giudiziario perdonato.
    E’ una forte e abbietta motivazione per l’assassinio di innocenti – e una
    altrettanto grave responsabilità dell’Autorità Palestinese.

    La concorrenza fra i gruppi

    Una seconda ragione è la
    competizione per la successione a Mohamed Abbas. Il “presidente” palestinese
    (eletto diciotto anni fa per un mandato di quattro anni, mai più confermato o
    esposto alle elezioni) ha 87 anni, cattiva salute e pochissima popolarità. Non
    ha eredi designati: la sua uscita dal gioco politico è questione di anni, forse
    di mesi. Alla sua morte o rinuncia il sistema dell’Autorità Palestinese rischia
    di esplodere. Il terrorismo, con la popolarità che ne consegue, sarà fra le
    ragioni determinanti della selezione del successore: non nel senso che gli
    assassini attuali abbiano la possibilità di una carriera politica, anche perché
    di solito muoiono negli attentati, ma chi li manda o gestisce la fazione che li
    manda sì. Dato che la comunità internazionale non sanziona seriamente le
    organizzazioni palestiniste per il terrorismo, ma guarda di fatto con
    indulgenza ai loro crimini e appena può li aiuta a violare la legge
    israeliana,  la competizione fra le
    fazioni si gioca sull’estremismo verbale, e sulla capacità pratica di uccidere
    gli ebrei.

    Gli accordi di Abramo

    Una ragione più generale è
    questa. Negli ultimi anni la situazione medio-orientale si è evoluta verso la
    marginalizzazione della questione palestinese. Il problema è oggi per tutti gli
    stati della regione l’imperialismo iraniano e la passività degli Usa nei suoi
    confronti, che fa di Israele il solo ostacolo all’egemonia degli ayatollah.
    L’Autorità Palestinese e Hamas fanno il possibile per riportare il calendario al
    momento in cui erano loro al centro della politica della regione. E il
    terrorismo è la via più semplice per ottenerlo.

    Il nuovo governo

    Vi è infine, soprattutto da parte
    della stampa americana ed europea, la tendenza a mettere in relazione questi
    attentati con la svolta politica israeliana, che ha portato a un governo che si
    propone di gestire in maniera più dura i rapporti con l’Autorità Palestinese. I
    fatti dimostrano che il nesso non esiste. La crescita dell’ondata terrorista è
    iniziata la primavera scorsa. Si sono create nel territorio amministrato
    dall’Autorità Palestinese e con la sua complicità delle sacche urbane (per
    esempio Jenin e Nablus) dove comandano i terroristi, che spesso sono anche
    agenti di polizia dell’Autorità. Le forze di sicurezza israeliane sono
    costrette a frequenti e difficili incursioni per contrastare il radicamento
    terrorista e catturare i ricercati più pericolosi, affrontando una resistenza
    armata e organizzata, Così è stato mercoledì scorso, quando c’è stata una vera
    e propria battaglia a Jenin, in cui hanno perso la vita una decina di
    terroristi. Dunque l’azione del governo attuale non c’entra. E’ possibile però
    che la maggiore decisione nella lotta al terrorismo, le sanzioni più dure nei
    confronti di complici e familiari degli attentatori (che spesso si
    identificano), il maggior sostegno delle forze dell’ordine alle comunità sotto
    attacco, che sono state annunciate da Netanyahu dopo gli attentati, possano
    contribuire a smorzare l’offensiva terrorista. Ma non si può essere sicuri che
    ciò accada e potrebbe essere necessario un’operazione massiccia nelle basi
    terroriste, come avvenne vent’anni fa.

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