Un omicidio feroce
Il doppio attentato di ieri a
Gerusalemme è orribile ed efferato. Piazzare delle bombe in un bersaglio
assolutamente civile come la sempre affollata stazione degli autobus,
imbottirle di chiodi e bulloni per straziare le carni degli innocenti che
avessero avuto la sfortuna di trovarsi nel raggio dell’esplosione, uccidere un
ragazzino di quindici anni, l’israeliano-canadese studente di yeshiva Aryeh
Schopak e ferire altre due dozzine di
persone non è un atto di “resistenza” e neppure di guerra, è un delitto atroce,
un omicidio feroce anche perché casuale, un crimine contro l’umanità.
Come la “seconda intifada”?
Se si cerca di analizzare
freddamente le circostanze dell’attentato, esso rappresenta anche un grave
segnale d’allarme, la testimonianza di un salto di qualità del terrorismo. In
primo luogo, le bombe fatte esplodere in luoghi pubblici, in particolare
all’interno del territorio “storico” dello stato di Israele, non solo in Giudea
e Samaria, richiamano agli israeliani la grande ondata terroristica di
vent’anni fa, che sui giornali venne chiamata “seconda Intifada”. Vi furono
stragi nei pub, nei ristoranti, nei supermercati, negli autobus, dappertutto.
Nessuno poteva sentirsi sicuro. La costruzione della barriera di sicurezza
contribuì a rendere più difficile questo tipo di attentati, una campagna
militare stroncò le basi del terrorismo e alla fine questo pericolo fu
scongiurato per due decenni. Ma nonostante la barriera e i controlli stradali
non è impossibile fare entrare delle bombe nel territorio di Israele e tentare
di ripetere quel periodo difficilissimo.
La tecnica dell’attentato
Rispetto a quei crimini vi è però
una differenza fondamentale. L’omicidio non è stato compiuto da un attentatore
suicida con una cintura esplosiva, bensì da qualcuno che ha lasciato le due
borse esplosive alle fermate dei bus e le ha fatto esplodere in maniera
coordinata usando un cellulare che ha innescato il detonatore. È una tecnica
più avanzata, che non costa la vita al terrorista e che permette di agire da
lontano e anche con un certo anticipo di tempo, com’è già accaduto qualche
volta in Libano. Indiscrezioni giornalistiche attribuite ai responsabili delle
indagini rimandano a finanziamenti provenienti dal centro di Hamas in Turchia.
Ma è significativo che non vi siano stati per tutte le prime ore di ieri
arresti o indicazioni di possibili responsabili. Anche le telecamere, che non
mancavano nel luogo dell’esplosione e che hanno funzionato perfettamente, non
sono risultate particolarmente utili, perché in quella zona vi è un gran
passaggio di persone, che spesso portano borse o zaini. Insomma, dietro
l’attentato vi è una rete internazionale e una competenza tecnica nettamente
superiore al passato, il che fa temere che questo tipo di attacchi possano
ripetersi.
Il contesto
Dopo l’attentato vi sono state
numerose dichiarazioni di solidarietà per Israele, dagli Usa, dall’Unione
Europea e anche da parte del ministro degli Esteri italiano Tajani. Da parte
palestinese vi sono state le solite scene disgustose di dolcetti offerti per
strada a Gaza e anche in numerose località di Giudea e Samaria per festeggiare
l’omicidio. Ma vi sono state anche prese di posizione sostanzialmente complici
del terrorismo da parte di esponenti della sinistra israeliana: il solo
deputato ebreo della “lista unitaria” comunista-nazionalista araba, Ofer
Cassif, in un discorso alla Knesset ha paragonato la vittima Aryeh Schopak a un
terrorista arabo morto negli scontri con la polizia l’altro ieri a Shechem,
mentre cercava di impedire con le armi che fedeli ebrei potessero andare a
pregare alla tomba di Giuseppe, com’è esplicitamente statuito negli accordi di
Oslo; a Hadas Steif, una giornalista della “radio militare” (che in realtà non
esprime le posizioni delle gerarchie militari, ma un’ideologia di sinistra) è
stata tolta la copertura dell’attentato, dopo che ne aveva attribuito la colpa
alla progettata nomina di Itamar Ben-Gvir a ministro della Sicurezza
interna.
Un altro episodio
raccapricciante di terrorismo
Sempre ieri è successo un altro
episodio terribile. Il corpo di Tiran Fero, un ragazzo druso-israeliano di 17
anni, abitante a Dilyat HaCarmel, sopra Haifa, ferito gravemente in un incidente
stradale nella città di Jenin, e portato d’urgenza all’ospedale della città, è
stato rapito da una trentina di terroristi palestinesi. Essi, saputo della
presenza di un cittadino israeliano, hanno fatto irruzione in ospedale, l’hanno
staccato dal respiratore che lo teneva ancora in stato vegetativo, benché ne
fosse stata dichiarata la morte clinica, l’hanno portato via e lo hanno tenuto
in ostaggio per un possibile riscatto. I drusi sono una popolazione araba,
distribuita anche in Libano e Siria, con una loro distinta identità religiosa.
In genere sono fedeli allo stato di appartenenza e in Israele prestano
onorevolmente servizio militare, ma mantengono buoni rapporti con i
palestinesi. Tiran Fero era solo un ragazzo ed ora la famiglia ha cercato
disperatamente di recuperare almeno il suo corpo. La popolazione drusa si è
mobilitata, ha minacciato di andare a riprendersi con la forza la salma del
ragazzo a Jenin e anche l’esercito israeliano ha preparato un’operazione
militare a questo scopo. Alla fine, dopo trenta ore di sequestro, i terroristi
hanno ceduto e hanno restituito il corpo alla famiglia. Ma anche questo
episodio testimonia il totale imbarbarimento del movimento palestinista.