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    Due consigli per essere iscritti nel libro della vita

    Dichiarò Rabbì Keruspedài: disse Rabbì Yochanàn che vi sono tre libri aperti a Rosh Hashanà: uno per i veri malvagi, uno per i veri giusti e uno per coloro che si trovano in una fase intermedia. I veri giusti sono subito iscritti nel libro della vita, i veri malvagi in quello della morte e per coloro che si trovano in una fase intermedia si attende per la trascrizione da Rosh Hashanà a yom Kippùr…

    (T.B. Rosh Hashana 16b)

     

    Molti Maestri si sono soffermati su questa Mishnà. La vita o la morte decisa per l’uomo in base al suo comportamento non è sempre da intendere come esistenza terrena. Vi sono malvagi che vivono per molto tempo e persone rette e oneste che muoiono in giovane età. Per i Tosafòt, i dotti commentatori del Talmùd, si tratta qui della vita oltre la morte, della serenità o dell’inquietudine decisa per l’anima nel mondo dell’aldilà. Per altri Maestri la Mishnà tratta della resurrezione che sarà permessa solo ai meritevoli dopo l’arrivo del Mashìach. Rosh ha shanà e Yom Kippùr, in cui si deciderà il nostro futuro, sono alle porte e il tempo che ci è rimasto per modificare in bene il nostro avvenire è ormai limitato. Nella Tefillà chiediamo a Dio ogni sera dopo la lettura dello Shemà Israèl di darci dei consigli per poter cambiare il nostro futuro. Questi suggerimenti ci vengono dati dai nostri Maestri. Qui ne riporteremo soltanto due, scritti cinquant’anni fa dal grande Maestro Rabbì Chaiìm Shemuèlevic’ (1902 – 1979) nel suo fondamentale libro Sichòt Mussàr. Facciamone tesoro.

     

    Talmùd Rosh Hashanà 17A: attenti allo specchio

     

    Disse Rabbà: a chiunque sa passare oltre ai propri diritti il cielo perdona tutti i peccati commessi perché è detto: Egli sopporta il peccato, perdona la trasgressione (Michà 7, 18). Sopporta il peccato e perdona la trasgressione sembra un’inutile ripetizione perciò si deve intendere: Di quale persona il Signore sopporta il peccato? Di colui che sa perdonare le trasgressioni che altri hanno commesso verso di lui. 

     

    Spesso, o sempre, giudichiamo gli altri per mancanze commesse verso i nostri confronti e attendiamo una giusta rivalsa ai diritti personali violati ingiustamente. Non è facile perdonare, cancellare un torto e guardare oltre, cercando di ricostruire rapporti personali ormai guastati. Perché, dunque, Dio non dovrebbe giudicare anche noi con lo stesso metro? Perché scusare, dimenticare e assolvere dalle offese chi a sua volta non sa discolpare, obliare o passare oltre ad un torto ricevuto provando a ricostruire legami ormai lesi? Il termine “Cielo” si traduce in ebraico Shamàim, che a sua volta è composto dalle due parole Sham-Màim – lì vi è acqua. L’acqua è uno specchio dove si riflette l’immagine, un volto che sempre nasconde anche il nostro carattere. Ciò che si decide in alto e dall’alto viene mandato è sempre anche il riflesso del nostro comportamento e dei nostri rapporti verso gli altri e verso noi stessi. La traccia lasciata in noi dalla maldicenza subita, dall’ingiustizia e dalle offese non può mai essere cancellata con facilità. L’unico modo è quello di ritrovare una forma di umiltà, la forza di guardarci dentro e di scoprire quante volte anche noi stessi abbiamo ingiuriato e diffamato gli altri e il Creatore. Ecco il primo consiglio: si impari a perdonare se si vuol essere perdonati da Dio e iscritti nel libro della vita.

     

    Talmùd Sanhedrìn 92a: non è sempre un bene aprire una finestra

     

    Disse Rabbì Zeirà: Si insegna che se una casa è buia non si devono aprire le finestre per vedere i difetti nascosti nelle mura.

    Un Cohèn, un Sacerdote giunto a valutare se le pareti di una casa colpite da strane chiazze mandate dal Signore dovevano essere demolite (Lev. 34), non poteva aprire le finestre per far entrare la luce e valutare l’entità del danno. I Maestri così imparano che il buio, la discrezione e la riservatezza nascondono i difetti e salvano dalla distruzione. Amiamo spesso farci notare per le nostre belle azioni e per le belle frasi spesso pronunciate solo per circostanza. Ma apparire non è un bene perché ciò illumina spesso anche le nostre mancanze. Racconta il Talmùd:

    Accadde che un giorno Rabbàn Yoḥanàn ben Zakkài… vide una povera donna che stava raccogliendo orzo tra lo sterco degli animali. Quando lo guardò, la donna si avvolse tra i capelli, poiché non aveva nient’altro con cui coprirsi, e si fermò davanti a lui. Lei gli disse: “Mio Maestro, dammi del sostentamento”. Le rispose: “Figlia mia, chi sei?” Gli disse: “Sono la figlia di Nakdimòn ben Guryòn”. Il Maestro replicò: “Figlia mia, i molti soldi di tuo padre, dove son finiti?”. Gli disse: “… Mio padre non faceva Tzedakà e per questo non mantenne intatti i suoi averi e perse tutto ciò che aveva”.

    Si chiede la Ghemarà: Nakdimòn ben Guryòn non dava denaro in elemosina?! Non è forse insegnato: Dissero di Nakdimòn ben Guryòn che quando usciva di casa indossava dei lunghi manti di seta nei quali nascondeva del denaro che i poveri venivano a prendere da dietro e faceva ciò per poter dare del denaro senza causare loro vergogna? Sì, ma egli agiva così solo affinché si parlasse di lui in modo onorevole. (T.B. Ketubàt 66b, 67a)

    Non vi è onore più grande della modestia, dell’agire in bene senza farsi notare ed apparire. È il buio della riservatezza e della semplicità che mantiene veramente intatta la nostra casa. L’agire per farsi notare produce solo macerie. Ecco il secondo consiglio per avere una vera vita ebraica. Si faccia del bene di nascosto per aprire una finestra verso il futuro.

    Possa tutto Israele avere il merito di essere iscritto nel libro della vita. Amèn.

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