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    L’attentato terrorista di Monaco, mezzo secolo fa

    Sono passati cinquant’anni da quei due terribili giorni, quando undici atleti israeliani vennero presi in ostaggio nel villaggio olimpico di Monaco di Baviera e massacrati da un commando terrorista palestinese. La dinamica del delitto è abbastanza semplice. Alle 4 e mezza del mattino del 5 settembre, otto terroristi pesantemente armati scavalcarono facilmente il recinto non sorvegliato del villaggio olimpico, entrarono con grimaldelli o chiavi false (probabilmente fornite dai servizi segreti della Germania Est) nella palazzina dove erano alloggiati gli atleti israeliani. Due cercarono di resistere e furono uccisi subito, i loro cadaveri orribilmente mutilati. Gli altri furono assassinati durante il tentativo di fuga dei terroristi all’aeroporto, dove la polizia aveva accettato di consegnare loro un aereo di linea per lasciarli rifugiare in Egitto; ci fu un tentativo molto maldestro di fermarli usando dei cecchini e i terroristi uccisero subito gli ostaggi; oltre agli israeliani morirono anche un poliziotto e alcuni degli attentatori. Gli altri furono arrestati, ma furono poi liberati come riscatto di un altro sequestro, qualche mese dopo. Israele diede loro la caccia e riuscì a eliminarli quasi tutti.

    Il comportamento delle autorità di Monaco fu vergognoso. La polizia non soddisfò le richieste israeliane di maggiore protezione fatte prima dell’attentato, nonostante avesse avuto informazioni sulla possibilità di un attacco; dopo il sequestro rifiutò l’intervento dei commando antiterroristi offerti da Israele; nell’affrontare l’emergenza mostrò un’impreparazione totale. Il comitato olimpico sospese le gare per la durata del sequestro, ma rifiutò la richiesta di annullarle e dopo due giorni le Olimpiadi ripresero, come se nulla fosse accaduto. Solo nelle ultime due edizioni (2016 e 2020) vi furono delle cerimonie in ricordo delle vittime e del più grave attacco mai subito dai Giochi.

    Dei paesi arabi solo la Giordania emise un comunicato di condanna. I terroristi si dichiararono membri di “Settembre nero”, ma come confessò quell’anno Abu Dawud, uno dei terroristi, “non esiste un’organizzazione Settembre Nero. Al-Fatah annuncia le sue operazioni con questo nome così che non appaia come esecutore diretto dell’operazione”. Oggi sappiamo che Arafat era informato dell’operazione e la approvò col solito silenzio/assenso. Chi raccolse i fondi per finanziarla fu il vice di Arafat e attuale leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas.

    In Germania i terroristi avevano l’appoggio logistico del regime comunista dell’Est, il che implica che probabilmente i servizi segreti e i vertici politici del blocco orientale erano informati. Si sa per certo che i neonazisti tedeschi aiutarono i terroristi e che questi erano però anche in stretto contatto con gli estremisti di sinistra, tanto che come riscatto del sequestro chiesero non solo la liberazione dei condannati per terrorismo detenuti nelle carceri israeliane (un obiettivo che si ripete nel tempo, da qui al caso dell’Achille Lauro, di Shalit, recentemente dei due cittadini israeliani malati di mente sequestrati da Hamas), ma anche quella dei terroristi ultrasinistri della banda Baader Meinhof, che erano nelle carceri tedesche.

    Dalle carte riservate entrate in possesso dieci anni fa del settimanale “Der Spiegel” risulta che il governo federale tentò un contatto con i terroristi, proponendo loro una specie di lodo Moro, cioè la garanzia che non avrebbero più colpito obiettivi tedeschi, in cambio di un riconoscimento politico e di sostegno economico: un’offerta rifiutata dai terroristi. Vale la pena di ricordare che il cancelliere, responsabile ultimo del disastro della sicurezza tedesca, si chiamava Willy Brandt, lo stesso che due anni prima aveva compiuto il nobile gesto di inginocchiarsi davanti al Ghetto di Varsavia; ma evidentemente non aveva imparato abbastanza da impedire che di nuovo degli ebrei fossero ammazzati, solo perché ebrei, sul suolo della Germania, a una decina di chilometri dal campo di Dachau.

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