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    La mostra dell’artista israeliano Kalter durante Documenta 15. Una protesta per ricordare gli esclusi

    Documenta a Kassel è tra le maggiori esposizione d’arte internazionali. Sebbene non abbia sede in uno dei maggiori centri europei, ma in una città nell’Assia settentrionale, ha saputo fin dal 1955 diventare luogo d’innovazione e sperimentazione di sistemi espositivi e d’incontro con le nuove tendenze artistiche. L’edizione di Documenta 15 (fino al 25 settembre) ha ricordato a molti la non neutralità delle opere e dei messaggi che spesso i lavori possono veicolare: sono ancora vive le polemiche per l’opera dai chiari contenuti antisemiti del collettivo indonesiano Taring Padi, della sua conseguente e giusta rimozione e delle dimissioni della direttrice Sabina Schormann. Oltre a questo episodio c’è da ricordare l’assenza di inviti ad artisti israeliani, un dato che difficilmente da subito si è potuto verificare vista la scelta del collettivo indonesiano Ruangrupa – che cura l’esposizione – di non diffondere una lista ufficiale dei partecipanti. Un’idea apparentemente inclusiva che vuole porsi lontana dalle logiche del sistema dell’arte ma che ha però ispirato una mostra di protesta del curatore e artista israeliano Ishai Shapira Kalter (1986, vive e lavora a Tel Aviv). 

    A partire da questa assenza di artisti israeliani, Shapira ha deciso di creare un progetto personale, che non rientra nelle manifestazioni ufficiali, per colmare questo vuoto. “Se non esiste un vero elenco di partecipanti, allora tutti sono potenziali partecipanti” ha dichiarato l’artista allestendo una sua mostra “Bad Breath” nello scantinano di un appartamento, affittato on line (dal 18 al 21 agosto), utilizzando per la pubblicità la grafica ufficiale di Documenta 15 ed entrare così con questo artificio nel circuito espositivo. Ha esposto così una serie di otto disegni in cui a matita sono tracciati volti affiancati da immagini di oggetti, luoghi e testi in Yiddish tratti da pensieri di suo nonno materno, un sopravvissuto alla Shoa. Kalter è infatti il cognome di suo nonno che l’artista ha scelto di affiancare al suo da oltre quindici anni per rimarcare questo legame. Ad accompagnare questa esposizione c’era anche la registrazione di alcuni brani composti da Shapira al ritorno dal servizio di leva, utilizzando un vecchio pianoforte del 1920 ditta Zimmermann di Lipsia portato in Israele e regalato dal nonno a sua madre nel 1964. 

    Al di là della risonanza che può aver avuto questa breve esposizione come dice l’artista un dato è certo: l’arte può manifestarsi anche “al di fuori delle norme istituzionali”. Sperando che la prossima Documenta sia veramente quella che sembrava essere nelle intenzioni dei curatori, ovvero una “lumbung” parola indonesiana che significa “risaia comune”.

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