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    Gorbaciov e gli ebrei

    Il giudizio dei russi e quello del mondo

    La morte di Mikhail Gorbaciov, l’ultimo leader dell’Unione Sovietica, avviene nel momento in cui la Russia mostra di nuovo un volto autoritario e imperialista con l’invasione dell’Ucraina, le minacce all’Occidente, la repressione di ogni dissenso interno, perfino la minaccia di impedire di nuovo l’emigrazione ebraica, proibendo le attività dell’Agenzia Ebraica. Putin dichiara che la fine dell’URSS propiziata da Gorbaciov (ma solo dopo il tentativo di colpo di stato del 1991 che cercò di eliminarlo) fu “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo” (peggiore dunque delle due guerre mondiali e della Shoà), il che implica un giudizio drasticamente negativo sul suo predecessore, condiviso del resto dalla maggioranza dei russi, fra cui, secondo i sondaggi, solo l’otto per cento lo vede positivamente. Il giudizio del mondo, o almeno del mondo occidentale, è assai diverso, com’è testimoniato dal Premio Nobel per la Pace che gli fu assegnato nel 1990 e dalla grande popolarità e dall’immenso rispetto con cui l’ex segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica fu trattato ogni volta che si trovava all’estero, per esempio nella sua visita in Israele nel 1992.

     

    Il punto di vista ebraico

    Gorbaciov, oltre a concludere la guerra fredda e consentire che la dittatura comunista fosse rovesciata senza spargimenti di sangue, ebbe una enorme importanza anche per il mondo ebraico. La grande maggioranza degli ebrei europei sopravvissuti alla Shoà si trovava alla fine della Seconda guerra mondiale in Unione Sovietica, guardata con sospetto e spesso perseguitata dal regime comunista, che, dopo un’iniziale posizione favorevole, a partire dagli Anni Cinquanta vedeva Israele come un alleato degli Usa e il sionismo come un movimento nazionalista, anticomunista, nemico della “liberazione” del Terzo Mondo. I numerosi ebrei che volevano emigrare in Israele non potevano farlo, anzi se insistevano conoscevano spesso le carceri sovietiche e la Siberia. Erano i cosiddetti “refusenik”, che lottavano per la democrazia oltre che per il diritto di emigrare. Fra questi coraggiosi, accanto a Sakharov, l’esponente ebraico più importante fu Natan Sharanski, destinato poi a diventare ministro in Israele e presidente dell’Agenzia ebraica. Fu Gorbaciov a far liberare progressivamente questi prigionieri politici e poi a consentire l’immigrazione in Israele di oltre un milione di cittadini sovietici.

     

    Gorbaciov e i dissidenti ebrei

    Quanto queste concessioni furono frutto di autentica convinzione democratica e quanto furono forzate dai rapporti di forza, dall’azione di grandi leader occidentali come Thatcher e Reagan, dallo stato disastroso dell’ economia dell’Urss? Vale la pena di leggere quel che ha scritto di lui in un editoriale sul Washington Post Nathan Sharanski, il primo leader dei refusenik liberato da Gorbaciov nel 1986, che ne parla con rispetto, ma con un certo distacco.

     

    L’opinione di Sharanski

    “Bisogna anzitutto ricordare che Gorbaciov era un vero sostenitore delle idee di Marx e Lenin, e l’intenzione originale dietro le sue riforme  era di rilanciare il comunismo con un volto più umano. Nel momento in cui è diventato chiaro che il desiderio del popolo di una maggiore libertà avrebbe potuto alla fine rovesciare il regime, Gorbaciov ha fatto del suo meglio per frenare le forze che aveva scatenato. Durante i suoi primi viaggi in Occidente, prima di diventare capo del Politburo, Gorbaciov scoprì che l’Unione Sovietica aveva pagato un pesante prezzo diplomatico ed economico per il trattamento riservato ai dissidenti. Di conseguenza, entro il primo anno dall’ascesa al potere, iniziò a rilasciare prigionieri politici e refusenik. Quando divenne presto chiaro, tuttavia, che questa politica poteva portare a un’emigrazione di massa, furono introdotte nuove restrizioni. L’emigrazione più libera portò rapidamente a richieste di autodeterminazione da parte di gruppi religiosi e nazionali. Anche a questo Gorbaciov ha resistito, inviando truppe in Georgia, Lituania e altrove, che uccisero decine di manifestanti. Dopo la mia liberazione, mi è stato subito chiesto se volevo ringraziarlo per la mia libertà. Ho risposto che ero grato a tutti coloro che hanno combattuto per la mia liberazione, compresi i compagni ebrei e i leader stranieri, perché ho capito che senza la loro lotta non sarebbe successo. A quel tempo evitai deliberatamente di ringraziare Gorbaciov perché, con così tanti miei compagni dissidenti ancora in prigione e l’emigrazione ancora non consentita, sentivo che sarebbe stato irresponsabile e persino sleale dargli credito.” In seguito, in occasione di incontri ufficiali, Sharanski racconta di aver tentato di ringraziare anche lui, ma di aver trovato Gorbaciov quasi offeso per quel che percepiva come ingratitudine. Era dunque un uomo che restò legato al passato comunista. “Tuttavia, se guardiamo al XX secolo non attraverso la lente delle lotte politiche, ma piuttosto dalla prospettiva a volo d’uccello della storia, vediamo quanto fosse assolutamente unico Gorbaciov. In quasi tutte le dittature ci sono dissidenti, e di tanto in tanto ci sono anche leader occidentali disposti a rischiare il loro destino politico per promuovere i diritti umani all’estero. Ma Gorbaciov era un prodotto del regime sovietico, un membro della sua élite dominante che credeva nella sua ideologia e godeva dei suoi privilegi, ma decise comunque di distruggerlo. Per questo, il mondo deve essergli grato.”

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